Migliaia di persone nelle piazze d’Italia, proposte di educazione affettiva nelle scuole o, meglio, “educazione alle relazioni”, come la chiama il ministro dell’istruzione Valditara. Il terribile omicidio di Giulia da parte del fidanzato ha finalmente avviato il processo di un cambiamento. Da dove si comincia? Dal modello di mascolinità (lo preferisco a virilità, che rimanda subito al sesso) che continua a dominare la nostra società, infarcito di equivoci sul testosterone e ormoni simili. In realtà fuori dall’Italia esiste una tradizione, principalmente americana, di ricerche in questo ambito: i cosiddetti “men’s studies”, letteralmente studi sugli uomini. Studi trasversali che coinvolgono la sociologia, la psicologia, la filosofia, l’antropologia e l’economia, i cui primi testi accademici risalgono agli anni Settanta e Ottanta, partendo dall’idea che anche le esperienze maschili – come quelle femminili – siano modellate da forze culturali e politiche che definiscono ciò che ci si aspetta socialmente da un uomo. Favoriti dalla decostruzione dei ruoli di genere avviata dalle riflessioni femministe degli anni Settanta, i “men’s studies” emersero come un’opportunità per gli uomini di mettere in discussione i ruoli sociali tradizionali. Anche nel nostro Paese il femminismo stimolò negli anni Ottanta varie riflessioni sull’identità maschile, che vennero poi, purtroppo, frettolosamente dimenticate. L’assenza di una tradizione italiana di studi di questo tipo è spia di un Paese conservatore, poco incline a riflettere sui modelli di mascolinità dominanti, ferme alcune esperienze significative come quelle dell’associazione “Maschile Plurale”, il “Cerchio degli uomini” sostenuto dal Comune di Torino e dalla Regione Piemonte, e “Mica Macho”, un collettivo online nato nel 2020. Raewyn Connell, sociologa australiana, una delle più influenti autrici nell’ambito dei “men’s studies”, definì il concetto di «mascolinità egemone». Lo descrisse come l’insieme delle pratiche culturali che legittimano la posizione dominante degli uomini e giustificano la subordinazione delle donne. La mascolinità egemone, secondo Connell, trova espressione in tutte le società e definisce contesti in continua evoluzione e in cui si intersecano diverse gerarchie. Agli anni Novanta risalgono anche le prime riflessioni sulla cosiddetta «mascolinità tossica», termine usato per indicare espressioni di aggressività e dominio prettamente maschili, spesso accompagnate da un senso di frustrazione legato ai rapporti fra i sessi. Il sociologo statunitense Michael Kimmel, in particolare, descrisse il ruolo di sentimenti come la paura e la vergogna nella costruzione dell’identità di genere maschile. La virilità è generalmente intesa dagli uomini come una qualità senza tempo, astorica; in realtà “l’assorbimento” della mascolinità tra i ragazzi è un fenomeno culturale, legato tra le altre cose all’osservazione delle interazioni tra gli adulti. «Noi siamo sotto il costante e attento controllo da parte di altri uomini», scrisse Kimmel, e che la dimostrazione di virilità passi attraverso l’approvazione di altri uomini che ci valutano «è sia una conseguenza del sessismo sia uno dei suoi principali sostegni». La cosa più importante che i “men’s studies” sottolineano è che è irrimediabilmente entrata in crisi l’illusione che attitudini e ruoli di genere siano “naturali”. Ora bisogna riflettere e intervenire. Sarà un processo lungo e complesso, ma l’idea che ad occuparsi di questo problema siano soltanto la polizia in termini repressivi e la scuola sul piano dell’educazione, è ridicola quanto ipocrita perché appalta ad altre istituzioni un cambiamento che occorre produrre nella quotidianità. Di tutti noi.