Monza 26 Marzo 2025
Le cosiddette Best Practices (buone pratiche) sono esempi di procedure organizzative che possono diventare modelli replicabili per migliorare l’attività di cura in ambiti con caratteristiche simili. Ci sono elenchi di buone pratiche in campo medico-sanitario, ci sono osservatori specifici che raccolgono e monitorano buone pratiche in relazione alla sicurezza, ad aspetti clinico-assistenziali, per la digitalizzazione, la gestione dei big data, la telemedicina. Chi si occupa di questo, può perdere però di vista il malato, la malattia ed il fattore umano. Come scrive Giorgio Cosmacini, medico, filosofo e storico, «La medicina non è una scienza, è una pratica basata su scienze diverse e opera in un mondo di valori. È una tecnica con un suo proprio sapere conoscitivo e valutativo che differisce dalle altre tecniche perché il suo oggetto è un soggetto: l’uomo».
Le buone pratiche che riguardano i pazienti non possono prescindere dalla cultura di un centro medico-scientifico di eccellenza che abbia una storia, una letteratura a supporto dell’attività clinica, che sia una vera e propria scuola. Purtroppo, negli ultimi trent’anni, tante di queste scuole sono state eliminate da una scure politico-economico-organizzativa, un pezzetto alla volta, come è successo, ad esempio, alla chirurgia della mano di Legnano.

La coperta resta sempre corta in tema sanitario e il sistema cerca soluzioni nelle buone pratiche per garantire la sopravvivenza organizzativa con costi sostenibili. Ma non è solo una questione di risparmi perché nessun modello è efficace senza considerare il fattore umano in tutte le sue variabili. Dagli anni Sessanta del Novecento si è assistito allo studio e alla applicazione dell’economia sanitaria per bilanciare la gestione delle risorse, la valutazione degli interventi sanitari e la gestione degli ospedali come aziende, che è stata molto discutibile. Studi che in particolare arrivano dal mondo anglosassone. Ma la semplice applicazione di regole economiche in un ambito così complesso come la malattia e la cura, ha creato non poche distorsioni approdate alla “sanità mercato” ed alla “salute come merce”. Ciononostante, ci sono alcuni modelli organizzativi esempio di buone pratiche che, se rispettano le regole e l’etica della professione medica, possono funzionare. Fra questi, per ottimizzare le risorse e utilizzare le migliori competenze acquisite nel tempo da centri di eccellenza in favore della migliore assistenza ai pazienti, c’è il modello Hub & Spoke delle reti cliniche integrate. La sua caratteristica è concentrare l’assistenza ad elevata complessità in centri di eccellenza (Hub) che uniscono a raggera dei satelliti (Spoke). Hub non è un acronimo, ma la traduzione del mozzo di una ruota nella quale spoke sono i raggi.

Un esempio di buona pratica per questo modello organizzativo, attivato in diverse regioni italiane, è il reparto di cardiochirurgia di Parma e mi piace poterne parlare per diversi motivi. Innanzitutto, perché non è New York e noi dobbiamo ragionare con le forze disponibili e esempi replicabili sul territorio italiano. Conoscendo molto bene la storia di questo reparto, posso dire che oltre ad essere completo per attività svolta (solo il trapianto di cuore e la cardiochirurgia pediatrica restano fuori dalle sue competenze) è un luogo di cura dove si tiene veramente ai pazienti. La medicina più gradita è quella che riguarda anche la vicinanza, la comprensione di tutte le problematiche del paziente e della sua famiglia.
Parma, una delle culle della cardiochirurgia italiana dove il primo intervento venne effettuato nel 1972, funge da centro hub per Piacenza (centro spoke): i pazienti di Piacenza vengono operati a Parma, restano 4/5 giorni per la degenza post-operatoria e poi tornano a Piacenza per la riabilitazione. I medici di Parma una volta alla settimana vanno a Piacenza per effettuare i controlli necessari al paziente, vicino a casa sua. Qualche volta capita che (eccezionalmente) vadano al domicilio del paziente. Questo io lo considero prendersi cura del paziente anche con affetto, anche con delle eccezioni al sistema, proprio perché è l’uomo ad essere eccezionale. È la base del prendersi cura, che non entra in un modello organizzativo, ma è parte dell’impostazione etica che un centro medico-chirurgico di eccellenza deve avere.

Avere un personale stabile e ben formato è un’altra pratica fondamentale da seguire, per nulla scontata oggi nel marasma del fuggifuggi dagli ospedali. Spesso non emerge quanto sia lungo e faticoso formare un’equipe medico-infermieristica. Se il personale cresce in un reparto per anni, quel luogo diventa come “un paesello” per chi, tutti i giorni, affronta insieme ai pazienti ed ai loro famigliari, la vita e la morte, la sofferenza, la malattia ma anche la guarigione, il successo di un intervento complicato riuscito, il follow up di pazienti che tornano per i controlli e si sentono in buone mani per anni. Questo rappresenta un modello di successo da replicare. Durante il COVID, ad esempio, non era chiaro a nessuno che non è possibile spostare il personale da un reparto all’altro e che le competenze degli infermieri, ad esempio di terapia intensiva, non sono uguali a quelle di altri colleghi in altri reparti. Io ho avuto la fortuna di crescere in un reparto dove il paziente veniva prima di tutto, perché così i nostri maestri ci avevano insegnato e ora vedere troppo spesso – mi è capitato di recente in un reparto di fisioterapia – il personale medico-infermieristico che guarda l’orologio per non perdere il turno in mensa, è qualcosa fuori dalla mia comprensione di medico e del servizio che ho svolto tutta la vita.
Implementiamo esempi validi che facciano bene al lavoro di tutti i giorni dei sanitari e dei pazienti, buone pratiche anche prese dal passato per ricostituire “le scuole” di medicina – che non significa togliere un test di ingresso per rimetterlo dopo i primi sei mesi di università – ; torniamo ad una visione completa per formare i dottorini. Io sto dalla parte del “paesello”.
- Ha collaborato Sabrina Sperotto
Immagine di apertura: elaborazione di Jon Tyson