Milano 25 Aprile 2021
Clinica. Parola che affonda le radici nel sostantivo greco kline, letto. E dunque il clinico è il medico che insegna ai suoi allievi presso il letto del paziente. Con il solo aiuto dei sensi: la vista, il tatto, l’udito, l’olfatto… Tutti insieme sapientemente orchestrati per stanare il colpevole del danno corporeo sondando gli indizi che emergono dall’organismo malato. Ma abbiamo, ahinoi, una convinzione: il celebre occhio clinico, permetteteci la battuta, avrebbe oggi bisogno di una robusta visita oculistica. Perché s’è impigrito, imbolsito, offuscato – come un cristallino colpito dalla cataratta –, sostituito dalla supremazia tracimante della vista hi-tech delle macchine diagnostiche.

Diciamocelo: i camici bianchi dovrebbero tornare a impugnare la lente d’ingrandimento in stile Sherlock Holmes. Così la pensano con fermezza Claudio Rapezzi, Roberto Ferrari e Angelo Branzi, tre cardiologi italiani autori (nel 2005, sulle pagine dell’autorevole rivista inglese British Medical Journal) di un memorabile e illuminante scritto che invita il popolo dei camici bianchi a ispirarsi, nella pratica medica quotidiana, ai processi investigativi degli eroi del romanzo poliziesco. Soltanto così diventerà possibile scongiurare una minaccia atroce: che il ragionamento diagnostico venga brutalmente ucciso.

In effetti l’immenso personaggio letterario ideato da Arthur Conan Doyle, alla fine del XIX secolo, che cosa afferma? Che tre sono le prerogative essenziali del perfetto detective: osservazione, deduzione e conoscenza. Una visione, questa di Sherlock Holmes, perfettamente condivisa anche da altri celebri investigatori immaginari: da Auguste Dupin, creato da Edgar Allan Poe, a Hercule Poirot, partorito dalla fantasia di Agatha Christie. Ma le successive nuove star della produzione gialla, come il commissario Maigret di Georges Simenon, il padre Brown dello scrittore Gilbert Keith Chesterton e poi il tenente Colombo interpretato con grande perizia dall’attore Peter Falk (e concepito da Richard Levinson e William Link), hanno finito per arricchire questo ideale profilo investigativo aggiungendo altre due caratteristiche: la propensione a immergersi nelle circostanze in cui il reato s’è compiuto (ma, mutatis mutandis, potremmo dire: la malattia s’è manifestata) e la capacità di cogliere le incongruenze sulla scena del delitto. Ovvero: se la vittima è un imprenditore raffinato, facoltoso e di successo, perché mai stava bevendo del prosecco a buon mercato nella sua camera da letto? C’è sentore di messinscena sul luogo del misfatto? Insomma, bisogna saper discernere oltre l’apparenza. «Voi vedete, ma non osservate. La distinzione è chiara», chiosa Holmes al dottor Watson, nel racconto Uno scandalo in Boemia.

Una faccenda è il soggetto giovane che non fuma, senza storia di malattie importanti in passato, con un dolore al torace, la febbre e un addensamento polmonare alla radiografia, ben altra storia è il caso del signore di una certa età, forte tabagista, anche lui alle prese con una fitta toracica e un analogo reperto ai raggi X ma senza rialzi della temperatura corporea, che accusa un recente cambio nel timbro della voce. Nella prima evenienza si dovranno approfondire gli accertamenti dinanzi al legittimo sospetto di una malattia infettiva, nella seconda circostanza il nemico da indagare è un tumore. Eppure entrambi i pazienti mostrano il medesimo addensamento all’esame radiologico. La clinica è arte e scienza dell’investigazione. E ben venga un pizzico aggiuntivo di fiuto innato, come rimarcano le acute parole del cardiologo americano Michael A. LaCombe, espresse nel 1993 sulla rivista Annals of Internal Medicine: «I medici migliori sembra che abbiano un sesto senso per la malattia. Ne avvertono la presenza, sanno che è là, ne percepiscono la gravità prima che qualunque processo intellettuale possa definirla, catalogarla e rivestirla di parole. I pazienti sentono questo, di fronte a un medico del genere: che è attento, vigile, pronto. Che si preoccupa per loro».

C’è di più: nel giallo clinico, a caccia della diagnosi perfetta, servono pure intraprendenza e ostinazione, proprio le peculiarità che animano l’operato di Philip Marlowe e Sam Spade, indiscusse icone del genere letterario hard boiled (ed entrambe magistralmente incarnate al cinema da Humphrey Bogart). In definitiva, concludono Rapezzi, Ferrari e Branzi, il clinico ideale incarna l’armonica fusione dei modelli investigativi citati e sfoggia inoltre una speciale predisposizione a cogliere, nel mucchio degli esami clinici, strumentali e di laboratorio, non solo ciò che è presente ma anche quello che manca. Le coerenze e le contraddizioni.
Su tutto, però, domina certamente la capacità di ascoltare/ intervistare / interrogare il paziente, per ricavare le cruciali tessere utili a ricostruire il puzzle diagnostico. E fa allora davvero rabbia, da questo punto di vista, il dato diffuso nel 1999 dal Journal of the American Medical Association: negli ambulatori statunitensi un medico lascia parlare un paziente per 22 secondi in media, prima di interromperlo. Un vero delitto.
Immagine di apertura: foto di Gerd Altmann