Chiamiamolo talk show o, in modo più sofisticato, infotainment, parola di origine anglosassone che fonde informazione (information) e intrattenimento (entertainment). In questi ultimi mesi questo genere ibrido basato principalmente sulla conversazione fra gli ospiti e, spesso, fra chi urla di più, ha visto crescere la sua audience di oltre il 7 per cento. Considerando solo la fascia serale, nei tre canali RAI, i tre di Mediaset e La7, si alternano in una settimana una ventina di trasmissioni di questo tipo. Lo show consiste nel mettere insieme un panel – quasi sempre troppo numeroso – di persone, o «esperti» con opinioni diverse, il più possibile contrapposte, ai quali è permesso di dire tutto ciò che vogliono, visto che nella maggior parte dei casi i conduttori si comportano in maniera «circense»: intervengono solo per abbassare i toni quando si esagera o si va troppo per le lunghe. In un contesto siffatto quel che conta è la capacità di affabulazione/fascinazione dell’ospite, o la sua grinta quando interrompe e zittisce gli altri. La conoscenza degli argomenti di cui si parla non ha molto valore. Ma chi sono gli ospiti? Visto che i talk show sono tanti, inevitabilmente c’è penuria, per cui alla fine gli ospiti sono sempre gli stessi trasformati con un colpo di bacchetta magica in «opinion leader» dall’incompetenza dei conduttori. Poi ci sono ospiti particolarmente appetibili perché dotati di un talento attoriale spiccato, che saltano da una trasmissione all’altra, come se fossero stati travolti dalla furia mediatica di apparire. Fenomeno che non risparmia, purtroppo, giornalisti noti, direttori e ex direttori di giornali. Ma l’informazione che fine fa in questi salotti? Fa la parte di Cenerentola visto che predominano le opinioni sui fatti, come ben ha messo in evidenza il fondatore del Censis Giuseppe De Rita, qualche giorno fa su “Il Corriere della Sera”: «Non ci sono verità che non possano essere messe in dubbio: tu la pensi così, ma io la penso al contrario e pari siamo. Non ci sono santi, dogmi, decreti, ricerche di laboratorio, tabelle statistiche; vale e resta dominante il primato dell’opinione personale». Tutto questo è pericoloso. Siamo di fronte ad un sottogenere televisivo che non è asettico politicamente, ma alimenta nel pubblico atteggiamenti di disimpegno e avversione nei confronti della cultura, e, nel peggiore dei casi, rafforza orientamenti populistici. Ben venga allora “Atlantide” di Andrea Purgatori, forse un po’ noiosetta, ma che si attiene strettamente alle regole del giornalismo e ai fatti, costruita su filmati e interviste.