Milano 26 Luglio 2021
Stadio di Copenhagen, in campo Danimarca e Finlandia, ore 18 del 12 giugno 2021, calcio di avvio della prima partita del girone B del campionato europeo 2020. Dopo 43 minuti di gioco, il centrocampista danese Christian Eriksen si accascia al suolo privo di sensi. Il suo cuore si è fermato. Gli occhi aperti indicano qualcosa di drammatico. Praticamente morto. Per pochi minuti, perché il suo capitano Simon Kjaer capisce tutto e gli apre la bocca per tirare fuori la lingua ed evitare il soffocamento, operando poi il primo massaggio cardiaco. Il rapido intervento del compagno di squadra, unitamente a quello dello staff medico che sembra aver adoperato il defibrillatore, resuscita il 29enne.

Dopo aver ripreso conoscenza Eriksen è stato trasferito in ospedale, a Copenhagen. Dove ha sempre mostrato lucidità e partecipazione attiva sui social, facendo il tifo per i compagni già poco tempo dopo il ricovero. Nei giorni successivi, un nutrito protocollo di esami e test fino all’impianto di un defibrillatore di ultima generazione. Inserito sottocute nella regione toracica laterale sinistra, poco sotto l’ascella per intenderci, e collegato ad un elettrodo anch’esso sottocutaneo che passa al centro del petto, davanti lo sterno, quindi senza fili che entrano nel cuore. Riconosce e interrompe aritmie ventricolari pericolose. Da un punto di vista pratico questo dispositivo permette di svolgere attività sportive. E può essere facilmente rimosso nel caso venga risolta la causa dell’aritmia improvvisa.
Ma perché alle 18,43 di quel 12 giugno quel cuore si è fermato? Sui media si sono subito rincorse ipotesi di diagnosi, le più svariate, e si sono fatti paragoni con precedenti morti improvvise in atleti. Ne ricordiamo alcuni, affetti da un difetto genetico, ipotizzabile anche nel caso di Eriksen: i calciatori Davide Astori, Antonio Puerta, Daniel Jarque, Piermario Morosini, il nuotatore Mattia Dall’Aglio, il giocatore di hockey Darcy Robinson. Per tutti questi la causa, confermata dall’autopsia, è stata la cardiomiopatia aritmogena congenita. È una patologia relativamente rara (interessa circa una persona su 5.000), non è curabile, ma controllabile nelle manifestazioni gravi con il defibrillatore, ha una base genetica e, secondo alcuni studi, l’attività sportiva è responsabile della progressione della malattia ed è associata ad un rischio 5 volte maggiore di morte improvvisa. Diagnosticarla è difficile, se non impossibile.

Per Riccardo Cappato, “padre” del defibrillatore interamente sottocutaneo, Direttore del Centro di elettrofisiologia clinica e aritmologia del gruppo Multimedica di Milano «nel caso di Eriksen le ipotesi sono svariate. Mancano elementi della sua storia clinica e di quanto appurato dagli specialisti dell’ospedale danese. Non abbiamo nemmeno informazioni sulla defibrillazione in campo. Di certo la crisi cardiogena è stata grave, lo indicano quegli occhi spalancati e la contrazione fino all’ostruzione delle vie aeree superiori. Un arresto del cuore da aritmia grave. Cause possibili? Molte. Una preesistente mai individuata, tipo la cardiomiopatia congenita o la sindrome di Brugada (malattia ereditaria che predispone alla morte improvvisa cardiaca, ndr), oppure una miocardite infiammatoria da causa grave (per lo più da virus, come il Covid, che non danno sintomi riguardo al cuore, ma che poi all’improvviso innescano l’aritmia), o un disturbo elettrolitico. La causa infiammatoria, se si riesce a diagnosticare, è reversibile, cosa che potrebbe consentire a Eriksen di togliere il defibrillatore e tornare a giocare a calcio in Italia». In realtà potrebbe già giocare con il defibrillatore sottocutaneo, come avviene nel calcio in Olanda e in Danimarca o in altri sport tipo pallavolo, basket Usa, scherma, ma la Federazione Calcistica Italiana lo vieta. Anche quella inglese, al momento.
Una miocardite subclinica (asintomatica) di origine infiammatoria? «I medici dell’ospedale danese dovrebbero sapere se è possibile come causa», conclude Cappato. Molto pessimista è un medico che conosce il cuore di Eriksen, Sanjay Sharma, cardiologo sportivo alla St George’s University di Londra. Secondo lui, che presiede “il gruppo di consenso cardiaco” di esperti della Federazione Calcistica inglese, gli enti calcistici e i medici saranno probabilmente “molto severi” nel consentire a Eriksen di giocare di nuovo.

«Per capire se e quando il calciatore potrà tornare in campo serve una diagnosi precisa della patologia che ha portato il suo cuore a fermarsi senza che ci fosse stata alcuna avvisaglia in tal senso», interviene Franco Cecchi, specialista in malattie Cardiovascolari e Cardiomiopatie, per molti anni dirigente medico a Firenze all’Ospedale di Careggi e al Meyer. Fondatore e Presidente dell’associazione di pazienti con cardiomiopatia (Aicarm), precisa: «Quando è arrivato all’Inter è stato sottoposto a tutti gli screening. E in Italia siamo severissimi in questo campo. Ora si possono fare solo supposizioni perché non conosciamo i risultati degli esami fatti in ospedale a Copenaghen e quelli eseguiti all’arrivo in Italia. Per poterli confrontare. Peraltro, non c’è coordinamento tra le federazioni calcistiche».
Quindi? «È possibile una miocardite infiammatoria, per esempio da mononucleosi o da citomegalovirus o da un virus che lo ha infettato in modo asintomatico anche tre mesi prima. O una vecchia presenza virale che si è riaccesa. Di fatto, quando è arrivato all’Inter non ha giocato per mesi (chissà se c’era un motivo fisico? Infiammatorio?) poi è stato determinante in fine campionato. Avere queste informazioni ci permetterebbe di sapere se ha avuto una passata infezione, se da essa è rimasta latente un’infiammazione che può arrivare a una miocardite e ad un’improvvisa crisi del ritmo. Se così fosse, si cura la causa dell’infiammazione e quando si è sicuri che si è spenta, si può anche togliere il defibrillatore».
Ci auguriamo che sia questa l’origine della malattia cardiaca di Christian Eriksen.
Immagine di apertura: foto di Jane Alexander