Firenze 23 Giugno 2021
L’ultimo disastro che ha richiamato l’attenzione del mondo sul problema della plastica in mare è stato poche settimane fa quando la spiaggia di Negombo, popolare destinazione turistica dello Sri Lanka, è stata ricoperta dai detriti, soprattutto elementi in plastica, provenienti dalla nave portacontainer X-Press Pearl andata a fuoco a largo dell’isola. Ma la plastica ormai è stretta “parente” del mare e degli oceani: i rifiuti marini sono composti al 60-80 per cento da prodotti plastici, toccando in alcuni casi il 95 per cento. Nel Mar Mediterraneo, il 78 per cento degli oggetti legati all’attività umana superano i 2 centimetri e di questi, la plastica costituisce il 96 per cento. I rifiuti galleggianti possono essere trasportati dalle correnti fino a quando non scendono sul fondo marino. È vero che una busta di plastica galleggia, ma un accendino o un qualsiasi oggetto che non lo fa, sarà spesso perso per sempre nell’ambiente. Altri rifiuti plastici, anche se leggeri e a bassa densità, come il polietilene e il propilene, possono agglomerarsi e per effetto delle incrostazioni dei microrganismi, aumentano di peso e affondano.

Uccelli marini, tartarughe, foche, squali, cetacei, ma anche pesci e invertebrati sono le prime vittime registrate dalla marine litter, dai rifiuti che galleggiano sulla superficie dei mari o abbandonati sul fondale; vengono scambiati per cibo, confusi con le prede e, una volta ingeriti, possono ostruire, ferire o perforare lo stomaco o l’intestino dell’animale. Le buste di plastica vengono scambiate dalle tartarughe per meduse, i tappi colorati dagli uccelli marini per molluschi. La loro ingestione può dare la sensazione all’animale di essersi nutrito, occupando il volume dello stomaco. Di fatto morirà per disidratazione, per assenza di nutrienti e inedia, o per le ulcere nell’apparato digerente.
Un’ulteriore causa di mortalità è l’impedimento fisico al movimento degli animali per le reti, i lacci, gli elastici arrotolati intorno ai musi, ai becchi, alle zampe, alle ali, ai colli e alle pinne. Il volo, il nuoto, il foraggiamento vengono limitati. La morte sopraggiunge per soffocamento, annegamento, fame e indebolimento degli organismi.

La plastica diventa meno visibile nel tempo, ma non sparisce mai. Si frammenta in piccole particelle persistenti, micro e nanoplastica. La frammentazione è causata da una combinazione di forze meccaniche, sostanzialmente le onde marine, e di processi fotochimici innescati dalla luce solare, più precisamente dai raggi ultravioletti. Così si formano micro e nanoplastiche che vanno da pochi millimetri a milionesimi di millimetri, ossia 1.000 volte più piccole di un’alga unicellulare; sono le frazioni che preoccupano di più la comunità scientifica perché non è ancora chiaro che cosa comporterà questo fenomeno nella rete trofica marina.

Da un punto di vista ambientale, il principale inconveniente della plastica risiede quindi nella mancanza di biodegradabilità. Non dimentichiamo, però, che la plastica è un contaminate emergente non solo per la frammentazione, ma anche per il rilascio dei composti tossici di origine organica alla base della sua produzione: i policlorobifenili, il bisfenolo A, gli ftalati, i ritardanti di fiamma, i metalli pesanti, i composti organoclorurati, tutti additivi utilizzati nella produzione primaria per conferire alla plastica determinate caratteristiche, morbidezza o durezza del prodotto finito, colore, resistenza nel tempo. Questi additivi chimici raggiungono i mari e si vanno ad aggiungere ai contaminanti già presenti di altra origine, soprattutto agricola e industriale. Esistono prove scientifiche che questo “cocktail” possa essere biodisponibile alle balene, agli squali elefante, agli uccelli marini, agli anfipodi e ai pesci dopo l’ingestione. Secondo le Nazioni Unite e l’Unione Europea, il 50 per cento delle materie plastiche prodotte sono pericolose in base ai loro monomeri costituenti, additivi e sottoprodotti vari. I principali processi fisiologici degli organismi marini possono essere alterati o interrotti, causando malattie quali cancro, riduzione della capacità riproduttiva, tossicità epatica e così via.
L’impatto dei contaminanti chimici della plastica coinvolge anche i livelli inferiori della rete alimentare marina come fitoplancton e zooplancton dove ogni effetto negativo può interessare l’intera catena alimentare e potenzialmente l’approvvigionamento ittico globale. Essendo persistenti non si degradano e sono soggetti a bioaccumulo (alcuni organismi li accumulano nei tessuti), e a biomagnificazione, ovvero l’accumulo via via crescente dei composti dal livello trofico più basso fino ai consumatori apicali. Ad esempio, da un piccolo pesce ad uno squalo.
Con l’aumento nei prossimi anni della plastica in mare, ma soprattutto della micro e nanoplastica da degradazione, è prevedibile che aumenteranno le interazioni tra questo contaminante emergente e il consumo umano di specie ittiche commestibili.