Il problema è arrivato sotto gli occhi di tutti con il caso di Shiloh Jolie Pitt, la figlia tredicenne di due star di Hollywood, Angelina Jolie e Brad Pitt, che fin dalla prima infanzia ha voluto vestirsi da maschio e farsi chiamare “John”. Nei mesi scorsi si era diffusa la notizia che la bambina si fosse sottoposta, con il consenso dei genitori, alla terapia che blocca la pubertà, cioè la comparsa dei caratteri sessuali che caratterizzano la donna: crescita delle mammelle, dei peli pubici e ascellari, allargamento del bacino. Anche se la notizia è stata smentita, questa storia ha portato alla ribalta una questione che oggi riguarda un numero non trascurabile di bambini cosiddetti transgender, più correttamente che soffrono di disforia, o incongruenza (meno stigmatizzante), di genere. Un fenomeno in crescita, a quanto sembra. È giusto assecondare le loro richieste con terapie che hanno conseguenze importanti anche se reversibili quando gli studi sembrano rivelare che il desiderio di essere dell’altro sesso si manterrà dopo la pubertà solo nel 20 per cento dei casi, mentre il 60 per cento diventerà omosessuale e il restante 20 etero? Pochi mesi fa il Royal Children’s Hospital Gender Service di Melbourne, in Australia, ha pubblicato linee guida dettagliate per aiutare i genitori, i medici e i bambini stessi ad operare scelte inevitabilmente complesse. Indicazioni importanti perché ancora adesso non si riesce a prevedere chi persisterà nel desiderio di essere John anziché Shiloh, anche se stando ad un ricerca recente, i bambini che affermano di “essere” dell’altro genere piuttosto che volerlo “diventare”, sono quelli che poi da adulti chiedono più spesso la riassegnazione chirurgica del sesso (interventi che mirano a modificare l’anatomia per renderla il più possibile vicina a quella sesso desiderato).

È davvero una realtà in aumento? «Avere dati precisi in questo campo è un’impresa ardua, ma secondo gli studi più accurati, soprattutto quelli condotti in Olanda, oggi un bambino su 100 soffre di incongruenza di genere – ci informa Guido Giovanardi, psicologo clinico, ricercatore presso l’università La Sapienza di Roma, che conosce da vicino queste situazioni -. Percentuale apparentemente alta, ma tutti i centri specializzati in diverse parti del mondo hanno registrato un aumento importante di casi (al Gender Development Service di Londra si è passati dai 97 casi del 2009 a più di 2000 nel 2016); soprattutto è cresciuto il numero di bambine che si sentono maschi. Spesso i piccoli ne parlano esplicitamente, dando segnali abbastanza chiari che appartenere all’altro sesso è per loro una questione d’identità, non un’inclinazione, o un gioco». Ma a quale età il bambino sviluppa la sua percezione di essere maschio o femmina? Gli studi in età evolutiva ci dicono che questo avvenga già a tre anni, anche se la capacità di definirsi maschio o femmina in modo stabile, quella che gli specialisti chiamano la “costanza di genere”, sembra acquisirsi tra i cinque e i sei anni.
Il bambino con incongruenza di genere ha comportamenti ricorrenti: i maschi mostrano avversione per i propri genitali e i giocattoli tipicamente maschili, le femmine spesso si rifiutano di orinare in posizione seduta, affermano che crescerà loro il pene e non vogliono l’abbigliamento da bambina. Una costante è la forte preferenza per compagni di gioco dell’altro sesso.
Il disagio è spesso palese e si esprime con ansia, depressione, disturbi del comportamento alimentare fino a forme autistiche e autolesionismo. È verso i tredici anni che si comincia a capire se la incongruenza di genere persisterà o evolverà, come abbiamo già detto, verso l’omosessualità (60 per cento dei casi) o l’eterosessualità. Per i “persistenti”, come li chiamano i medici, si pone il problema se ricorrere o meno alle terapie con i farmaci che bloccano la pubertà, o meglio la sospendono senza sopprimerla. L’orientamento prevalente nei centri specializzati è di ricorrere a queste terapie per evitare che la comparsa dei caratteri sessuali dell’altro sesso inasprisca il rifiuto del proprio corpo e peggiori uno stato di ansia e di depressione sempre presenti in questi casi che può sfociare nel suicidio. Considerando che sospendendo la cura tutto ritorna alla normalità, si tratta di un blocco transitorio dello sviluppo sessuale. Ma il bambino alle soglie della pubertà, fra gli undici e i quattordici anni, è in grado di dare un vero consenso? La questione è così complessa che nel 2018 l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, prima di autorizzare l’impiego di questi preparati detto off label (con un’indicazione diversa da quella per cui sono stati concepiti, la pubertà precoce patologica) ha chiesto un parere al Comitato Nazionale di Bioetica che si è espresso favorevolmente, ma a condizione che il disagio psichico del bambino/bambina sia importante, ci siano condizioni familiari tali da consentire un consenso libero da pressioni e la valutazione sia fatta da un team di esperti, pediatri, endocrinologi, psichiatri, psicologi clinici. Le linee guida australiane vanno oltre: enfatizzano la capacità di scelta del bambino senza tenere troppo conto dell’età cronologica. Un azzardo? «A parer mio sì – risponde Giovanardi – . I dati disponibili sui risultati nel tempo di questa scelta sono ancora pochi. Quanto sono quelli che poi tornano indietro? Non lo sappiamo. Ritengo che questo trattamento vada valutato caso per caso e con estrema prudenza».
Immagine di apertura: Gerd Altmann
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