Milano 23 Luglio 2020
Positivo e negativo. Ottimista e pessimista. Buono e cattivo. Bianco e nero. Si potrebbe continuare a lungo con i sinonimi delle due parole di per sé contrarie nel significato, ma pur sempre ancorate al loro ruolo opposto sulla scacchiera del linguaggio. Eppure, anche per loro è cambiata il ruolo semantico per la pandemia in corso. Il nuovo Coronavirus ne ha invertito il significato: risultare positivi al test o al tampone può non essere vissuto come positivo, risultare negativi al test o al tampone può non essere vissuto come negativo. Scusate il gioco di parole, ma è quanto sta vivendo l’umanità da quando è scoppiata l’emergenza Covid-19, la pandemia, con il lockdown, le quarantene, il distanziamento sociale, le mascherine, gli “arresti” domiciliari preventivi. Ed essere positivi oggi diventa anche oggetto di stigma sociale, negli Stati Uniti primo motivo di perdita di lavoro di questi tempi, di allontanamento non solo perché regola di prevenzione comune.

Ed è da questo gioco di parole che parte l’idea del libro firmato dalla giornalista Maria Emilia Bonaccorso e dallo psichiatra Massimo Cozza: Positivi – Ritrovarsi dopo il disagio emotivo da pandemia (Publiedit) disponibile sulle principali piattaforme online (compresa quella della casa editrice) e nelle librerie. Obiettivo: tentare di ribaltare l’esperienza drammatica della pandemia, a partire dalla stessa parola “positivi”, non più associata all’esito del tampone, ma alla sua connotazione originaria, ottimistica e rincuorante. Anche in senso clinico-diagnostico, se conseguente alla scoperta, attraverso il test sierologico, di aver sviluppato gli anticorpi all’infezione. E questo non è stigma, ma situazione in cui il positivo torna a essere buono. Si può, inoltre, provare a vivere anche la quarantena come un’occasione unica per passare dal “devo” al “posso”. Attraverso attività come leggere, parlare al telefono con amici o parenti, misurarsi con nuove capacità.
Maria Emilia Bonaccorso, caporedattore aggiunto della redazione Specializzati dell’ANSA e Cozza, direttore del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 2, hanno coinvolto anche Piero Chiambretti, con la sua prefazione, e due psicoterapeuti del calibro di Maria Rita Parsi e Massimo Biondi. Una lettura da non perdere per ritrovarsi, nei pensieri e nelle relazioni affettive e sociali con gli altri, con alcuni suggerimenti per riconoscere i segnali di allarme psicologico e migliorare il nostro benessere, cogliendo le opportunità che comunque questa storia inaspettata e tragica ci ha dato. Non si torna facilmente alla normalità se non si elabora il trauma cui la pandemia ci ha sottoposto, e continua a sottoporci. Piero Chiambretti ha vissuto tutto sulla sua pelle, ammalandosi e perdendo la mamma, testimonial con la sua toccante prefazione.
E non solo le persone che hanno visto coinvolti gli affetti più cari, ma tutta la popolazione sta vivendo un momento delicato e difficile sotto il profilo psicologico per i rischi collegati alla diffusione dell’epidemia e al proprio personale coinvolgimento, ma anche per le ricadute sociali ed economiche che l’intera emergenza sta provocando.
Dal senso di coesione alla rabbia, dalle paure irrazionali all’ansia di contagio che può generare comportamenti fobici e/o compulsivi. Emozioni alimentate anche da un’esorbitante quantità di informazioni, spesso discordanti, e dal moltiplicarsi di approfondimenti e commenti su tutti i media, dai quotidiani ai telegiornali. Un marasma che ha aumentato la vulnerabilità dell’opinione pubblica alle “bufale”. E chiusi in casa, in isolamento preventivo durante il lockdown, possono essere comparsi disturbi alimentari e del sonno, cambi repentini d’umore, difficoltà di concentrazione. «Fra i temi che segnalo – precisa Emilia Bonaccorso – c’è quello del trauma dei ragazzi: la brillante Maria Rita Parsi ha analizzato per noi questo aspetto. Poi gli anziani: abbiamo pubblicato una lettera meravigliosa di un uomo ricoverato in una Rsa. Una lezione indimenticabile di umanità e amore».
Dopo la quarantena, in molti di noi è comparsa la Sindrome della capanna, il timore di uscire, di riappropriarsi delle proprie abitudini, dei propri compiti, delle relazioni abituali. Per superarla – suggeriscono gli autori – può essere utile “una politica dei piccoli passi, riabituandosi con gradualità, partendo da prime esplorazioni limitate nel tempo e nello spazio in luoghi più conosciuti e frequentati prima, senza timore di farsi aiutare, eventualmente avendo accanto una persona di fiducia”.
I due autori devolvono integralmente i loro diritti d’autore all’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma
Immagine di apertura: foto di Ri Butov