Milano 27 Gennaio 2022
Uscito in giusta concomitanza con la Giornata della Memoria, Quel giorno tu sarai dell’ungherese Kornel Mondruczò, è un film che nella memoria si conficca come una spina salutare, la scuote, la fa tornare a vivere. Un racconto di una Shoah che non è ancora finita attraverso lo sguardo di tre generazioni, due donne e un ragazzino. Perché il passato non è passato, ci dicono il regista e la sua sceneggiatrice, Kata Wéber, che si sono ispirati a fatti realmente avvenuti. Scandito in tre capitoli, ciascuno intitolato al suo protagonista, Eva, Lena, Jonas, il film di Mondruczò (già autore di White God e Pieces of Woman) parte da un campo di sterminio per arrivare nella Berlino di oggi. Tre generazioni della storia, tre sguardi diversi, anche stilisticamente.

Sconvolgente è l’inizio vertiginoso, tra i più potenti e emozionanti visti al cinema in questi ultimi anni. Con tre soldati dell’Armata rossa, i primi a entrare a Auschwitz il 27 gennaio del ’45, che, gli occhi attoniti per l’orrore, tentano di ripulire quella che è stata a lungo una camera a gas. Secchi d’acqua gettati sul pavimento, pareti strofinate con vigore con scopettoni, disinfettanti sparsi ovunque. Ma per quanto sfreghino ci sono cose impossibili da pulire. L’incubo, l’empietà, lo strazio del supplizio, trasudano da ogni pietra. Dai muri, dalle grate, da ogni orifizio spuntano capelli. Ciocche umide, sporche, via via sempre più spesse, trecce lunghissime, matasse aggrovigliate di capigliature di donne morte lì dentro, uccise dalle esalazioni dell’acido cianidrico sparso dall’alto.

Un lungo piano sequenza, 13 minuti di silenzio angoscioso, interrotti da un pianto. Un vagito che viene dal profondo, da sottoterra. Stupefatti i tre uomini seguono quel suono inatteso, che li porta a scoperchiare un tombino. E lì sotto, sepolta viva in estremo tentativo di farla scampare alla morte, un bimba di pochi mesi. Increduli i soldati la tirano fuori, la coprono con qualche straccio, stringono al petto quella creaturina miracolosamente scampata al massacro. La chiamano Eva, la nuova donna, colei che aprirà una nuova storia. Dove non ci sarà mai più, mai più posto per simili tragedie, dove l’umanità, dopo aver visto e saputo, mai più, mai più, ripeterà quella barbarie.
Nel secondo capitolo ritroviamo Eva, ormai vecchia (a interpretarla la straordinaria Lili Monori), il corpo stanco, la mente confusa da ciò che ricorda e ancor più ciò che non ricorda ma che le hanno raccontato: come la madre la partorì, in piedi, allargando le gambe, soffocando le grida di dolore, mentre le altre donne le facevano schermo intorno nel tentativo di nascondere una nascita proibita. Di salvare, se non la madre, la figlia.

Una scena primaria rivissuta infinite volte, e che ancora adesso Eva ripete, senza enfasi, con distacco, alla figlia Lena. Che vorrebbe trascinarla all’ennesima commemorazione del governo ungherese, pronto da un lato a imbandire celebrazioni retoriche e dall’altro a bloccare le indennità dovute ai sopravvissuti. Un gioco ipocrita e meschino a cui Eva, pur nella sua confusione, non vuole più prestarsi: «Non voglio essere una sopravvissuta, voglio solo essere viva».
Infine Jonas, figlio di Lena, nipote di Eva. Un ragazzino dai tratti delicati, bullizzato dai compagni perché non sfrontato come loro, ma soprattutto perché ebreo. Quando a scuola scoppia un incendio, lui è il primo a venir accusato, preso di mira anche dagli insegnanti. Che nella Berlino aperta e progressista dei giorni nostri, parlano tanto di integrazione ma alla fine discriminano secondo antichi schemi. Il nazismo non è più al potere, ma la sua peste di annida ancora, persino tra i banchi di scuola.
Per sfuggire a quegli spettri del passato, Jonas si rifugia in un suo mondo popolato da zombie di carta, creati da lui per difendersi da quelli veri. A farlo uscire dalla sua solitudine angosciosa sarà una bambina musulmana con la testa rasata. Punita dal padre per essersi tinta i capelli di blu. Tra Yasmin, così si chiama, e Jonas si stabilisce un’amicizia e un’alleanza. Un ebreo e una musulmana sfilano alla parata scolastica tenendosi per mano. Insieme sono più forti, insieme forse riusciranno a tener testa ai nuovi zombie in agguato.
«Ogni titolo di Mondruczò – dichiara Martin Scorsese, produttore del film – arriva come un salutare shock per gli spettatori. In questo riesce nell’impresa di drammatizzare il movimento stesso del tempo, il modo in cui ricordiamo e il modo in cui dimentichiamo». Sottoscriviamo.
Immagine di apertura: Jonas (Goya Rego) e Yasmin (Padme Hamdemir) in una scena del film. Tra il ragazzino ebreo e la la bambina musulmana nasce una delicata amicizia