Milano 28 Maggio 2022

Fin dall’antichità ci si era posto l’interrogativo se esista una “guerra giusta”. Ai giorni d’oggi, lasciate alle spalle domande più filosofiche, forse irrisolvibili, l’accento va sul rispetto nei conflitti armati di minime “regole” di umanità. In che cosa consistono? Lo chiediamo a Luca Marini, professore di Diritto Internazionale e Diritti umani alla università La Sapienza di Roma e Presidente del Comitato Internazionale per l’Etica della Biomedicina (CIEB).

Luca Marini, docente di Diritto Internazionale e Diritti umani all’università La Sapienza di Roma

«Si tratta di norme internazionali di natura pattizia e consuetudinaria che tendono a umanizzare i conflitti armati, garantendo protezione a civili, neutrali, feriti e prigionieri e limitando o escludendo l’impiego di determinati mezzi di offesa. Si parla in proposito, con una certa dose di ottimismo, di “diritto internazionale umanitario”, di cui le Convenzioni di Ginevra costituiscono l’esempio più noto».

Il diritto umanitario che ha trovato un momento decisivo di verifica nel processo di Norimberga

«Al processo principale  di Norimberga furono giudicati i vertici politico-militari della Germania nazista, responsabili – secondo gli Alleati – di avere pianificato e attuato le aggressioni che sfociarono nella seconda guerra mondiale, oltreché di avere ordinato o commesso la violazione delle norme di diritto umanitario nel corso del conflitto medesimo. Un esempio per tutti è il famoso Kommandobefehl emanato personalmente da Hitler, ossia l’ordine di giustiziare tutti i commandos inglesi anche se catturati in uniforme. Peccato, però, che pochi ricordino che i primi a commettere questo tipo di crimine – ossia giustiziare prigionieri di guerra in uniforme – furono proprio gli inglesi nel 1942 con il raid sull’isola di Sark e nel fallito sbarco a Dieppe».

Una foto “storica”: i gerarchi nazisti sul banco degli imputati al processo di Norimberga nel 1945. Da sinistra, in prima fila Göring, Hess, von Ribbentrop e Keitel. Dietro da sinistra, Dönitz e Raeder

Si è trattato di un giusto processo o soltanto di una vendetta dei vincitori sui vinti?

«Sicuramente della vendetta dei vincitori, visto che l’intero impianto processuale si fondò sulla violazione del principio generale di diritto penale nullum crimen sine lege: all’epoca in cui i crimini in questione furono commessi dai nazisti, infatti, nessuna norma internazionale li qualificava ancora come tali. Fu proprio l’accordo di Londra che istituì il Tribunale militare alleato di Norimberga a codificare la tripartizione ormai classica di crimini contro la pace, come l’atto di aggressione; di crimini di guerra, consistenti essenzialmente nella violazione del diritto umanitario; e di crimini contro l’umanità, costituiti da crimini particolarmente gravi ed efferati quali tortura, genocidio e simili. Ma ormai la guerra era finita e gli Alleati vittoriosi potevano permettersi di fare proprio il motto di Brenno: vae victis!».

L’apertura, che taluni auspicano, di una procedura contro il presidente Putin da parte della Corte penale internazionale (CPI) dell’Aja avvierebbe una pagina decisiva nel campo del diritto internazionale penale?

«Se e quando la procedura sarà aperta, sicuramente sì, ma nel senso che per la prima volta dal 1945 il capo di una delle potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale sarebbe formalmente accusato di avere commesso gli stessi crimini per i quali furono processati, condannati e giustiziati i criminali nazisti: cosa che non è mai accaduta prima per gli altri vincitori del conflitto e tantomeno per il Presidente statunitense Bush, responsabile di almeno due guerre di aggressione. Sì, da questo punto di vista, l’eventuale apertura di una procedura da parte della CPI aprirebbe una nuova pagina».

La sede della Corte Penale Internazionale all’Aja nei Paesi Bassi.  Istituita nel 2002, ha il compito di giudicare individui ritenuti colpevoli di crimini di guerra, contro l’umanità e contro la pace e di aggressione (foto di Vladimir Astapkovich / Sputnik / Afp)

Putin liquida l’intervento in Ucraina come “operazione militare speciale”, al massimo una misura di prevenzione. Non un’aggressione, quindi. Il Trattato di Roma legittima pienamente le accuse attribuite al Presidente russo?

«Il Trattato di Roma riprende la tripartizione operata dal Trattato che istituì il Tribunale di Norimberga e quindi considera un crimine l’atto di aggressione. Ovviamente, per ritenere Putin colpevole di aggressione, dovremo attendere i risultati del procedimento che, se ci sarà, mi auguro sia obiettivo e imparziale».

Il massacro di Bucha giustificherebbe, come sostiene il sindaco di Kiev, anche un’accusa di genocidio?

«Chissà se e quando potrà mai essere ricostruita la verità su questa e su altre vicende, come a Donetsk. Mutatis mutandis, vorrei ricordare a questo proposito il massacro di Katyn, che tutti gli storici – e in particolare quelli polacchi – sanno essere stato commesso dai sovietici, ma che per la storiografia ufficiale russa è da imputare ai nazisti. Ma la stessa cosa vale per episodi analoghi, come le foibe carsiche o gli attacchi inglesi alle navi civili che tentarono di condurre gli ebrei nella Palestina britannica tra il 1945 e il 1947, sulle quali il velo delle menzogne è stato sollevato o abbassato, al momento opportuno, solo per ragioni politiche».

Il diritto di veto degli Stati Uniti e della Russia in Consiglio di Sicurezza non rischia di vanificare ogni eventuale decisione coercitiva della Corte dell’Aja?

«Sul piano politico è probabile, ammesso che la Corte arrivi a pronunciarsi».

Concludendo: che cosa ha da temere davvero lo “Zar” russo?

«L’ostracismo dei benpensanti occidentali, intrisi di buonismo europeista e globalista. Ma sono sicuro che il presidente Putin non perderà il sonno per così poco».

Immagine di apertura: il gruppo dei giudici che processò i gerarchi nazisti al processo di Norinberga in una foto a colori del 1945

Giornalista professionista dal 1971. Milanese, si è laureato in Filosofia alla Statale. A fine 1969 l'ingresso al "Corriere della Sera" dove ha percorso tutta la vita professionale, a parte un paio di libri e qualche pubblicazione extra. In via Solferino cinque anni di gavetta, l'ingresso nella redazione del "Corriere d'Informazione" e poi il "Corrierone" occupandosi per lo più di cronache, fino alla pensione.

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