Milano 25 Settembre 2021
Se è vero che la musica nasce dal silenzio, il deserto, per i suoi silenzi, è il grembo della musica. Zone desertiche occupano buona parte dell’Afghanistan. Dalle montagne di rocce impenetrabili e dalle distese sabbiose, a tratti rosse, con confini incerti per i giochi del vento, da secoli nascono silenzi e musiche.

Le sonorità afgane sono multiformi, poesia e danza si accompagnano spesso nel viaggio. Varietà e ricchezza non appartengono solo alla musica ma a tutta la cultura dell’Afghanistan, come racconta lo straordinario patrimonio artistico, etnografico e archeologico, nonostante i ripetuti colpi inferti da atti barbari e predatori. In molti di noi è ancora viva la memoria della distruzione dei Buddha di Bamiyan. Il supplizio dei «martiri di pietra» coincise con la messa al bando, decretata nel 1995 dai talebani, di «musica, cinema, televisione, sport, e ogni forma d’arte e divertimento, compreso il gioco degli aquiloni» (Isabella Vaj, Il cacciatore di storie, Piemme 2009). Il raggelante ordine di mettere a tacere la vita valse come macabro preludio all’11 settembre e ad anni di terrorismo. All’attacco alle Twin Towers e alla conseguente, disattesa, richiesta di Bush al regime di Kabul di consegnare Osama bin Laden, seguì l’inizio della guerra in Afghanistan. La presa americana della capitale e la caduta di Kandahar, il 9 dicembre 2001, segnarono la fine dell’Emirato Islamico. La musica, che era stata messa a tacere, riprese voce. Dalle frequenze di Radio Afghanistan fu diffusa, prima fra tutte, la canzone Watan (Patria) del celebre musicista afgano Abdul Wahab Madadi, che aveva rivisitato lo struggente canto greco Antonis, dall’opera Mauthausen Trilogy di Mikis Theodorakis e del poeta Iakovos Kambanellis: un inno alla compassione per il dolore delle vittime di regimi dispotici, al coraggio di uomini che, a costo della vita, dicono no ai tiranni, un canto alla libertà conquistata dopo la sopraffazione.

Sono trascorsi appena vent’anni e le porte del silenzio di piombo si sono aperte di nuovo a Kabul, a Kandahar, nelle sabbie del Rigestan. I talebani, il 15 agosto 2021, hanno preso possesso del palazzo presidenziale. Omicidi dei dissidenti; aggressioni feroci; crudeli punizioni; istruzione, lavoro, sport, libertà, diritti rigorosamente vietati alle donne; donne nubili di nuovo bersaglio di caccia per quella tomba che si chiama matrimonio coatto, finalizzato a fare delle spose un ”campo da arare”, per quella vergogna che è la schiavitù sessuale.
Dopo il 15 agosto, l’Afghanistan è di nuovo tornato a essere una terra senza musica: gli strumenti della pionieristica e sola orchestra femminile afgana, Zohra, diretta dalla temeraria e appassionata Negin Khpalwalk, sono stati fatti a pezzi; niente più musica in TV e in radio. Un silenzio greve e rosso è piombato sulla Valle di Andarabi dove viveva e cantava, sulle note del suo ğičak, Fawad Andarabi, assassinato brutalmente da un talebano sotto gli occhi dei familiari.

In rete circolano alcuni video amatoriali in cui si può ascoltare la musica popolare del contadino Fawad. In particolare in una registrazione, molto lontana da quella perfezione asettica cui siamo abituati e quasi assuefatti, la musica di Fawad sembra dialogare con la voce della natura, con il vento forte che attraversa l’amata valle montuosa. Il volto di Fawad e di chi, seduto accanto e davanti a lui, ascolta la sua musica, l’ipnotica forza che nasce dalla semplicità di questo canto e dei suoni, lo scenario naturale fanno pensare ad alcuni tratti distintivi di Orfeo. Con la lyra, ricevuta in dono da Apollo, Orfeo dava vita a straordinari incantamenti. Grazie al suono del suo strumento e al canto, induceva alberi e pietre a muoversi, fiumi a fermare il loro corso, animali ad ascoltarlo rapiti, anche quelli più indomabili e feroci. Persino Ade fu piegato dalla melodia della sua musica e convinto a dare l’assenso a un ritorno impossibile, quello di una persona non più in vita (Euridice) nel mondo dei vivi. Orfeo è dunque figura mitica che incarna emblematicamente l’innegabile forza d’incantamento della musica, vocale e strumentale.

Nell’immagine dipinta su un cratere attico della prima metà del V secolo a.C., conservato a Berlino (Staatliche Museen, Antikensammlung), Orfeo è sedotto dalla musica della sua lyra, e ugualmente sono ammaliati i Traci, che lo ascoltano estasiati. Lo stato di estasi condivisa e il piacere nel suonare e nell’ascoltare sono alcune delle leggi non scritte della musica. Non stupisce, allora, vedere un’analoga condizione in immagini tanto diverse e reali come quelle dei video frammentari che riprendono Fawad che suona e il suo piccolo, entusiasta, pubblico: proprio come l’Orfeo del cratere di Berlino, che siede su un masso roccioso con il suo cordofono, Fawad siede con uno strumento, che ne è una variazione, tra le rocce della sua Valle.
Un epilogo di morte tocca all’Orfeo del mito, la stessa fine è stata decretata per Fawad. Differenti le ragioni, lontanissimi i protagonisti ma, diversamente che nel mito, al musicista afgano non è stata perdonata la malìa della musica, la gioia libera del canto, troppo pericolose per chi trova estatica la musica di morte delle armi. Il lutto, e non Orfeo, si addice ai talebani. Orfeo che in Afghanistan ha anche volto di donna, come quello giovane della poetessa Nadia Anjuman, uccisa dal marito nel 2005, mosso da odio perché la moglie recitava simili versi in pubblico: «Sono stata silenziosa troppo a lungo / Ma non ho dimenticato la melodia / Perché ogni istante bisbiglio le canzoni del mio cuore / Ricordando a me stessa il giorno in cui romperò la gabbia / Per volare via da questa solitudine / E cantare come una persona malinconica / Io non sono un debole pioppo / Scosso dal vento / Io sono una donna afghana» (Gianluigi Colin, L’arte femminile afghana, La Lettura. Corriere della Sera, Domenica 29 agosto 2021).
Immagine di apertura: foto di Amber Clay