Milano 27 Gennaio 2025
Il Corriere della Sera in camicia nera gli stava stretto. E allora, dopo l’8 settembre ‘43, ricercato come antifascista dalle forze repubblichine, fuggì da via Solferino (la sede del giornale) e visse in clandestinità. Anche il Fascismo gli era stato stretto. Questo però non gli aveva impedito di fare il giornalista di regime, dal 1927 al 1939, all’Ambrosiano, quotidiano milanese fondato nel 1922 da Umberto Notari, e al Secolo Sera, testate oggi dimenticate. Parliamo di Andrea Damiano (1900-1963), scrittore, traduttore, giornalista. Una figura misteriosa, tormentata, contraddittoria, dimenticata.

Era stato assunto al Corriere nel marzo del 1942, come gli comunicava il Direttore in una lettera del 19 febbraio: «Vi sarà corrisposto lo stipendio mensile di lire 3500 al lordo e sarete tenuto a prestare servizio di giorno o di notte a seconda delle esigenze del giornale al quale dovrete dare l’esclusività dell’opera vostra». Tra il 1941 e il 1942 entrarono al Corriere Francesco Francavilla, Michele Serra e Gaetano Afeltra, divenuto un punto di riferimento della resistenza alla fascistizzazione, anzi alla “nazistizzazione”, del quotidiano. L’11 settembre la Wehrmacht arrivò, infatti, in via Solferino e impose il suo potere. I due responsabili del giornale, Ettore Janni e Filippo Sacchi, vennero sollevati dall’incarico e sostituiti da Ermanno Amicucci, la cui direzione, dal primo numero, 6 ottobre 1943, si caratterizzò per la servile propaganda e per lo scialbo conformismo, diventando di fatto organo del Nazifascismo. Di fronte alla nuova proprietà erano cominciate le fughe dal giornale. Amicucci al suo arrivo verificò che mancavano 30 redattori, assenti per malattia o per ferie. Il neodirettore scrisse a ciascun giornalista assente, pretendendone il ritorno. Ordinò visite fiscali per coloro che si erano dati malati. Una di queste lettere venne recapitata anche ad Andrea Damiano presso l’abitazione dei suoceri di Montalto Pavese: «Egregio signor Damiano, in base a nuove ed urgenti disposizioni ricevute dalla Prefettura, vi comunico che dovete presentarVi al medico provinciale di Milano».

Damiano non si presentò e per due anni fu latitante, ricercato tra Milano e Montalto Pavese, che spesso raggiungeva in bici rischiando la pelle sotto i bombardamenti. All’interno del Corriere coltivò i rapporti più stretti con quei giornalisti in odore di antifascismo (Afeltra, Francavilla), legati a Giustizia e Libertà e al Partito d’Azione. Eppure, non era stato proprio un antifascista militante. Aveva lavorato, lungamente per la stampa fascistizzata, firmando articoli – soprattutto di politica estera – inquadrati nelle direttive del regime.
Damiano era nato il 6 agosto 1900 a Marcos Juarez in Argentina, dove suo padre Carlo, contadino di Chivasso, era emigrato e aveva fatto fortuna. Nel 1908 il piccolo Andrea era tornato in Italia con il padre, la seconda moglie e 5 fratelli. Visse a Torino fino alla laurea in Economia (in seguito ne prese una seconda in Lingue e Letterature straniere a Venezia), poi la sua vita divenne milanese. Da giovane fu seguace e sostenitore di quel grande organizzatore di cultura che fu il giornalista e intellettuale torinese Piero Gobetti e del movimento antifascista che si era formato attorno a lui, con il quale condivise il profondo disgusto e l’allergia al torbido mito del nuovo regime. Dopo questo iniziale antifascismo espresso sulle riviste gobettiane nel 1924 e nel 1925, divenne un “intellettuale funzionario, ma non militante” per ricordare il libro dell’autorevole storico Mario Isnenghi.
Il suo primo eclatante gesto di opposizione lo fece nel 1941: rifiutò di collaborare al Popolo d’Italia, quotidiano del Duce, pur consapevole che la scelta avrebbe fatto terra bruciata attorno a lui. Lasciato il Corriere della Sera, nel dopoguerra tenne la vicedirezione del Popolo e nel 1954 passò all’ufficio stampa della Montecatini. Scomparve il 17 luglio 1963 a Cervo Ligure, lasciando due figli, uno dei quali, Amedeo, nato durante la clandestinità, morirà assassinato nel 1987 quando era presidente democristiano dell’Ussl di Saluzzo e aveva condotto un’inchiesta amministrativa volta a tagliare i rami secchi e corrotti delle baronie dell’ospedale.

Al Corriere della Sera fu collega e amico anche di Guido Piovene, Orio Vergani, Indro Montanelli, di lui più giovane, col quale ebbe diversità di vedute sulla loro “militanza fascista”. Di lui, Montanelli disse: «Il suo vizio era quello molto piemontese di prendere tutto sul serio». E Andrea Damiano replicò: «Egli non ha le mie disperazioni, i miei cedimenti, quel vivere rotto e piagato, ma pur tuttavia ostinato in un superstite senso di non eludibili doveri. Costui è compatto nella sua negazione: noi siamo feriti, egli è un deluso. Ignora la nostra calma amara, lui che è tutto sarcasmo».
Eppure, nonostante le illustri amicizie e l’onorata carriera, la conoscenza di quattro lingue, lo studio e l’amore per la storia, la politica, la letteratura, la scienza, la traduzione delle opere della scrittrice Premio Nobel Pearl S. Buck, di Daphne Du Maurier, di Cronin, di Shakespeare, la pubblicazione di 5 libri, Andrea Damiano è rimasto per lo più sconosciuto. La sua opera più nota è Rosso e Grigio, uscito nel 1947, subito dimenticato, ma riportato alla luce dalla casa editrice il Mulino dopo oltre mezzo secolo di oblio nel 2000. Nell’agosto 1963, alla sua morte, Enzo Biagi così lo commemorò: «Un giornalista che onorò il suo mestiere, uno scrittore raffinato e soprattutto un uomo autentico. Dalla vita specchiata, con una morte raccolta e serena». Un altro protagonista della stampa italiana, Guglielmo Zucconi, 30 anni dopo Biagi, ha scritto: «È stato il mio maestro, insegnò il mestiere a molti giovani, ero legato a lui da devota amicizia e sincera stima. Non c’è nessun mistero sull’autore. […] C’è, semmai, la smemoratezza di una cultura pronta a cancellare in fretta i morti “colpevoli” in vita di non aver saputo gridare ed esibirsi».

Sono, però, dovuti passare molti anni ancora perché Andrea Damiano venisse risuscitato. Nel 2011, una laureanda all’università di Pavia, Anna Ferrando, oggi docente di Storia nello stesso ateneo e profonda conoscitrice del Ventennio nero, ha scritto la sua tesi di laurea “Andrea Damiano – Un intellettuale gobettiano tra fascismo e democrazia”. Emergono, così, finalmente la vicenda umana e professionale e l’itinerario del giornalista inquieto, travagliato. Perché Damiano non è stato un intellettuale fascista reo confesso come Giuseppe Berto. Neppure è stato un fascista “riverniciato”. «Damiano – scrive la storica Anna Ferrando – avendo chiaro sin dal principio il vero volto criminale dell’incipiente regime, non si fece incantare, come invece capitò a gran parte della generazione poco più giovane della sua, quella dei Montanelli e dei Vittorini». E di Cesare Pavese. Lo storico Raffaele Liucci, nella introduzione di Rosso e Grigio, ricorda «la pubblicazione del taccuino segreto di Cesare Pavese, con le agghiaccianti lodi, durante la guerra, alla Germania nazista e il favore tributato all’esperimento della Repubblica Sociale». Andrea Damiano non scese mai così in basso. «Immune alla retorica fascista, Damiano rimase fedele all’ideale liberal-risorgimentale di patria. Fece parte di quell’Italia magari indignata e critica nei confronti del regime, ma portata a mimetizzare le proprie convinzioni, e a trovare un modus vivendi», sottolinea la professoressa Ferrando. Si comprende allora, perché Andrea Damiano intellettuale incompreso da vivo, sia stato rimosso da morto. Nel suo diario ha ben rappresentato gli italiani e il loro Duce: «Brucia il pensiero dell’atavica poltroneria degli italiani. Popolo insieme conformista e scettico, propenso alle ciucche parolaie, e pure incredulo sempre, anche di fronte ai saturnali di Mussolini. Nessun popolo cede con più abiezione dell’italiano alla atavica debolezza dell’esibizionismo da melodramma. Il Fascismo ne fece un orgiastico abuso».
E nell’ultima pagina del diario, datata 15 giugno 1945, rifletteva: «Con l’Italia che è crollata, non è crollato solamente il fascismo: è finita l’altra Italia che nel fascismo sfociò per naturale processo logico. È facile dire: “il fascismo fu un fenomeno morboso”. Certo che lo fu: ma allignò su un tronco marcio».
Immagine di apertura: Le Waffen-SS tedesche entrano a Milano il 10 settembre del 1943