Bologna 27 gennaio 2025
Un viaggio che parte dall’Inghilterra di Cromwell e della Glorious Revolution per spostarsi negli Stati Uniti della prima guerra anti-coloniale della storia, toccando Francia, Italia, Germania, fino alla Russia di Lenin e alla Cina di Mao. Luoghi, momenti storici, sviluppi differenti accomunati dalla radicalità: nulla è tornato al punto di partenza perché i cambiamenti scatenati dalle rivoluzioni propriamente dette si rivelano irreversibili.

Ripercorre questo viaggio lo storico britannico di chiara fama Donald Sassoon nel suo nuovo saggio Rivoluzioni. Quando i popoli cambiano la storia (Garzanti). Che la radicalità sia uno dei parametri fondamentali delle rivoluzioni non è, però, scontato. A causa dell’uso improprio che se ne fa al giorno d’oggi, la parola viene utilizzata nei casi più disparati: si parla di rivoluzione industriale o digitale e, al contempo, di rivoluzione dei costumi, sessuale, della telefonia mobile. L’elenco potrebbe essere molto più lungo. Se ne può dedurre che il termine rivoluzione è tra i più complessi da definire. C’è molta confusione anche tra gli addetti ai lavori. Lo storico Mark Bessinger conta ben 131 casi rivoluzionari in 166 paesi, altri parlano di numeri molto più contenuti, alcuni riducono il conteggio a sole tre “rivoluzioni canoniche”. È chiaro che a monte vi è un problema di definizione ed ogni definizione può rivelarsi incompleta e vaga, oppure, di riflesso, troppo precisa e stringente.
Che cos’è, allora, una rivoluzione? Un movimento di massa? Una serie di atti violenti? Rivoluzioni come quella dei “Garofani” in Portogallo o quella di “Velluto” nell’ex Cecoslovacchia insegnano che possono avvenire senza spargimenti di sangue. La stessa URSS crollò senza fare alcun rumore. Si determinano dal loro successo? Fascismo e Nazismo, seppur per breve tempo, soppiantarono lo stato democratico raggiungendo i propri scopi, eppure non vennero riconosciuti come rivoluzioni. Difficile venirne a capo.

Una cosa è certa: l’archetipo di tutti gli atti rivoluzionari è la Rivoluzione francese del 1789, e a lei attinge l’immaginario collettivo nel campo dei valori. Famosa la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino con il suo liberté, égalité e fraternité, e per il suo carattere violento, rappresentato dal Terrore giacobino e dalla ghigliottina. Eppure, anche questo paradigma è riduttivo. È arduo, se non impossibile, dare una risposta precisa. Sassoon sceglie di raccontare le rivoluzioni sulle quali non vi sono dubbi sulla natura e che già i contemporanei considerarono tali. La Rivoluzione inglese scoppiò quando il Parlamento rifiutò di concedere i fondi richiesti da Carlo I per finanziare una nuova guerra contro la Scozia (1641). Dopo alterne vicende, la Glorious Revolution pose fine al conflitto nel 1688, quando per vie incruente Guglielmo III d’Olanda divenne Re accettando di salvaguardare gli interessi parlamentari. Fu allora che il Parlamento sancì la sua supremazia sulla Monarchia. Quella americana e francese ebbero da subito una caratura rivoluzionaria. La prima si contrappose al colonialismo inglese a partire dal 1773, la seconda all’Antico Regime dal 1789. Entrambe imbevute d’Illuminismo, furono vittoriose, ma non crearono stabilità: negli Stati Uniti portarono alla Guerra di Secessione, in Francia al Terrore giacobino e al colpo di stato di Napoleone.

Le radici della rivoluzione russa attecchirono nell’arretratezza dello stato. Già prima della Rivoluzione d’Ottobre (1917), il potere degli Zar era giunto al termine. La rivoluzione cinese, nata dalle macerie del governo dei Qing, vide contrapporsi i comunisti e i nazionalisti. La vittoria di Mao (1949) lanciò il Paese verso uno sviluppo dal costo durissimo. Oltre a queste rivoluzioni che compongono l’ossatura del suo saggio, Sassoon inserisce le unificazioni dell’Italia (1866) e della Germania (1870). Una scelta insolita che l’autore giustifica con l’appellativo di “rivoluzioni nazionali”, perché segnarono un punto di svolta decisivo nella nascita dei rispettivi stati.
La prima ad essere chiamata propriamente rivoluzione fu la Glorious Revolution inglese. Da allora il termine entrò a far parte del vocabolario occidentale, diventando un elemento caratterizzante della Modernità. L’Antichità e il Medioevo, infatti, non conobbero eventi simili. Vi erano i tumulti, ma il paradigma rivoluzionario non apparteneva alla sensibilità dell’uomo del tempo: il Principato Augusteo, nonostante abbia soppiantato la Repubblica, si definì sempre difensore dell’antico ordine. Molto tempo dopo, lo stesso Marx usò il termine “rivoluzione proletaria” pochissime volte, nonostante gli esempi americano e francese fossero sotto i suoi occhi.

Lenin abbandonò gli ideali marxisti più volte, dando sfoggio del proprio pragmatismo; non adattò le sue scelte al comunismo, ma il comunismo alle sue scelte. Anche Stalin fece la stessa cosa, a fronte di una politica di potenza, accentratrice e piena di timori verso il dissenso interno. Mao seppe cucire il vestito ideologico addosso al proprio partito, il PCC, ma fece scelte ben lontane da quella ideologia e dettate dalla contingenza. Ieri, come oggi, in Cina vige un mercato capitalista con caratteristiche cinesi, che ha prodotto grande prosperità nel Paese, ma che è ben lontano dalla visione di Lenin e, senza andare troppo lontano, anche da quella dello stesso Mao.
Anche le rivoluzioni nei paesi liberali hanno generato contraddizioni. Negli Stati Uniti le libertà individuali promulgate dalla Dichiarazione d’Indipendenza ebbero valore solo per i bianchi, la schiavitù continuò ad essere ammessa fino alla Guerra di Secessione, che fu molte cose tranne che una guerra convintamente anti-schiavista. Oggi stesso, i problemi di inclusione sono all’ordine del giorno. La laicità francese fu una bandiera sventolata in fasi alterne e più di una volta la commistione tra Stato e Chiesa fu forte.

Il quadro disegnato da Sassoon fornisce uno spaccato particolareggiato perché il percorso che conduce una rivoluzione ad una svolta incontrovertibile non è mai lineare. Ogni moto ha radici profonde – principalmente economiche –, si manifesta in maniera improvvisa ed ha una lunga durata. La Rivoluzione Francese comincia ben prima della presa della Bastiglia e termina con l’avvento della Terza Repubblica, quella Russa raggiunge la sua conclusione dopo la caduta del Muro di Berlino, in Cina gli effetti rivoluzionari muovono ancor oggi numerosi processi.

Nessuno può prevedere l’onda lunga delle rivoluzioni, né quanto il cambiamento sarà profondo. Lo sapeva bene Tomasi di Lampedusa che nel suo Il Gattopardo mette in bocca al giovane Tancredi una frase divenuta celebre: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». In realtà, dopo l’Unità d’Italia il vecchio mondo dei privilegi feudali venne spazzato via. Tancredi aveva torto, nessun rivoluzionario può decidere l’andamento di una rivoluzione. La storia umana è in costante evoluzione. Lungo il suo corso le riforme si susseguono, i problemi si accumulano e poi, improvvisamente, «una guerra, un incidente, una dimostrazione, una crisi economica, un intervento straniero, e la rivoluzione scoppia e poi, quando finisce, la storia prosegue il suo corso». Una lezione tanto dura quanto vera.
Immagine di apertura: Eugène Delacroix, La libertà che guida il popolo, 1830, olio su tela, Parigi, Museo del Louvre