Pavia 27 Novembre 2024
Da principio, quando nel 1956 Carlo Scarpa (Venezia, 2 giugno 1906 – Sendai, 28 novembre 1978) fu incaricato del rinnovo dell’arredo museografico delle sale destinate ad accogliere la mostra Da Altichiero a Pisanello, sembrava che dovesse provvedere soltanto ad una ripulitura delle aggiunte “in stile” del 1924-26, realizzate in vista della rifunzionalizzazione del castello in edificio museale.

Ma con il proseguire dell’opera, anche nel cortile e nell’ala della galleria, e con l’emergere di consistenti elementi del castello trecentesco nascosti dal tempo, dagli interventi in epoca napoleonica napoleonici ed austriaci e dai ripristini degli anni Venti, il progetto scarpiano, completato nel 1974, si affermò come una lezione esemplare di restauro di un intero brano di tessuto urbano. Collocandosi in un dopoguerra che vedeva fortemente coinvolti architetti e urbanisti nel dibattito sul rapporto tra antico e moderno nella ricostruzione dei centri storici. La scelta di Scarpa segnò non solo la fine di un modello museografico che aveva resistito sino alla prima metà del Novecento, ma indicò una modalità inedita d’intervento nel restauro degli edifici monumentali, intesi come un racconto, una successione di momenti storici che convivono in un palinsesto di stratificazioni visibili. Il processo di elaborazione di quest’idea di restauro fu lungo e complesso.

I tre momenti architettonici fondamentali dell’intervento di Scarpa a Castelvecchio sono il congiungimento dei due corpi principali della Galleria ottocentesca e della Reggia passando sotto la strada urbana che conduce al ponte scaligero, la collocazione del monumento equestre di Cangrande I della Scala nel punto di cerniera e la sistemazione a prato del cortile maggiore d’entrata definito dalla facciata della Galleria, sulla quale colloca, in posizione asimmetrica, l’ingresso al museo.

Nel mettere a nudo i materiali che costituiscono l’essenza corporea della fabbrica medievale, l’architetto di serve di accostamenti inediti tra cemento, marmo, mattone, legno bruciato e acciaio, ma anche calce bianca, malta grigia e stucco colorato lucido o la rivisitazione di alcune tecniche tradizionali antiche, come la bocciardatura o il trattamento a stucco colorato di alcune superfici, interpretate in chiave moderna. Partendo dal riconoscimento delle aggiunte arbitrarie, Scarpa opera alcune cesure e demolizioni per mettere in luce le parti originali mediante l’apertura di finestre nel pavimento o tagli che consentono la lettura delle stratificazioni. A ciò l’architetto affianca il concepimento di un percorso museale unitario – lungo il quale non mancano momenti inattesi come improvvisi affacci verso l’esterno – completato da un sistema di allestimento essenziale e rigoroso che mette le opere in connessione e dialogo tra loro.
Il punto di più alta concentrazione espressiva corrisponde, invece, al vuoto risultato dalla demolizione dell’ultima campata del Galleria ottocentesca, nel punto di collegamento con la Reggia, nel quale un sistema di passerelle metalliche si articola attorno alla statua equestre di Cangrande, che si erge su una mensola di cemento.

Inizialmente addossata ad un muro e quindi priva della possibilità di essere vista da ogni lato, la nuova collocazione, e con essa il nuovo ruolo assunto dalla scultura, risponde al principio metodologico fondamentale nelle sistemazioni di sculture o grandi dipinti da parte di Scarpa: dare all’oggetto una collocazione che tenga conto della funzione monumentale originaria e che possa conferirgli contemporaneamente una leggibilità corretta, rendendolo godibile da tutti i punti di vista. L’intervento a Castelvecchio di Scarpa si colloca in un momento ricchissimo della carriera dell’architetto che negli anni precedenti aveva curato la sistemazione e l’allestimento di diversi complessi museali, tra cui le Gallerie dell’Accademia e il Museo Correr a Venezia, la Gipsoteca Canoviana a Possagno e la Galleria Regionale di Sicilia a Palazzo Abatellis, Palermo.

La tecnica espositiva di Carlo Scarpa trova fondamento nell’imprescindibile rapporto tra forma e sfondo, che nel museo veronese risulta in un allestimento essenziale ed effimero studiato nel più minimo dettaglio – come le mensole lapidee e i piedistalli cubici in tufo progettati per le sculture, le sottili cornici “a cassetta” per esaltare la qualità dei dipinti – per lasciare alle opere il ruolo centrale e al visitatore la possibilità di osservarle e comprenderle a tutto tondo.

La disposizione delle collezioni nello spazio delle varie sale consente una lettura che non è mai asettica. L’orientamento dei singoli pezzi, infatti, è determinato dal racconto che le opere narrano attraverso le relazioni reciproche. Dal punto di vista architettonico, un tratto distintivo della poetica scarpiana si ritrova nel distacco tra le scale e i rivestimenti parietali i cui moduli vengono tagliati e sagomati sul ritmo dei gradini, una soluzione che lascia percepire come tutti gli interventi siano stati concepiti all’unisono come parti ugualmente fondamentali di un unico organismo.
Castelvecchio è forse l’opera di Carlo Scarpa indagata più a fondo, per il limpido restauro sulla fabbrica medievale e per l’altissimo livello del progetto di allestimento che definisce il valore totale dell’intervento architettonico. I nove anni di progetto sono documentati da 657 disegni di straordinaria qualità conservati presso l’archivio del museo intitolato proprio a Carlo Scarpa.
Il trecentesco Castelvecchio e il ponte scaligero (foto di Chensiyuan)