Milano 27 Gennaio 2022
La moda ci rappresenta, e rappresenta i cambiamenti della società. Anzi, ce li mostra sfacciatamente prima ancora che entrino nelle nostre realtà. È elemento costante dei fenomeni culturali di epoche passate e recenti, coniugando l’aspetto simbolico e segnaletico (sono questo e quindi mi vesto così), il frivolo e l’esistenziale, l’inutile e l’indispensabile. La moda non serve a niente, eppure dice tutto.

Oggi più che mai, anche per le tendenze di marketing, comunicazione e dinamiche di acquisto, rappresenta una grande cassa di risonanza, in grado di amplificare i principali cambiamenti sociali in divenire. A unire i puntini ci ha pensato Andrea Batilla, designer e ricercatore tessile per Romeo Gigli, Trussardi, Aspesi, Cerruti, Les Copains, Bottega Veneta e per cinque anni direttore della scuola di moda dell’Istituto Europeo di Design di Milano, con il recente L’Alfabeto della Moda – “il mondo della moda di oggi in 26 lettere”, edito da Gribaudo: 26 risposte a 26 domande che restituiscono una visione delle questioni che la moda contemporanea solleva. «La moda è un enorme sistema di costruzione di senso attraverso l’estetica, ma da questo punto di vista è poco studiata e raccontata a causa delle forti dinamiche commerciali che prevaricano il resto. A differenza del cinema o dell’arte, in Italia non esiste un’editoria in grado di esprimere critiche e giudizi liberi per la totale compenetrazione con il marketing del settore. Questo genera una svalutazione della moda come argomento serio. Il racconto della moda fatto dalle Chiara Ferragni va bene; se poi però è affiancato da un livello più profondo e sfaccettato. Per questo, quello che faccio è un lavoro di divulgazione per raccontare che la moda è molto di più» dice l’autore.

Si comincia con la A di Adoro!, esclamazione per eccellenza del camp, subcultura adottata inizialmente dalla comunità negli anni Settanta come arma sociale per opporsi, attraverso un approccio estetico esagerato, ironico e giocoso, alle discriminazioni verso gli omossessuali. La moda, che è stata uno dei primi territori a sperimentare questo linguaggio e utilizzarlo per fini commerciali, oggi ha trasformato il camp da inferiorità a privilegio accettato. Si passa alla B di Branding per scoprire come oggi si costruiscano brand più leggeri dal punto di vista della narrazione in modo da renderli più facilmente maneggiabili da singoli influencer, e non più soltanto dalle aziende. La C è Cheap or Chic: i due estremi di chi rifugge terrorizzato dall’idea di cheap, insistendo sul privilegio del lusso che deve dettare legge, e chi invece considera a moda a basso costo la realizzazione dei desideri della gente; basti pensare al successo planetario di marchi come Zara, Stradivarius etc…

Su quest’ultimo, l’autore ci fa riflettere sul fatto che dal 2000 ad oggi la produzione di vestiti nel mondo è raddoppiata mentre la vita di un capo si è dimezzata, il che vuol dire che le persone comprano più vestiti, quindi dovrebbero essere vestite meglio. In realtà la democratizzazione della moda ha portato ad un’uniformità di gusto globale mai vista prima. Omologati, certo, ma attraverso l’abbigliamento tutti noi, bene o male, ci esprimiamo.

«Nel Novecento, nasce a Parigi quel fenomeno per cui si passa da un abbigliamento di gruppo sociale, ad un utilizzo di stili di abbigliamento orientati all’espressione dell’identità individuale. Scegliamo tra i molti disponibili e socialmente accettati, uno stile che indichi la nostre personalità e poi anche l’umore», ci spiega il sociologo Enrico Finzi, attento osservatore dell’evoluzione dei modelli di consumo.
Una delle lettere più interessanti del libro è la F di Futuro. «Una delle domande più frequenti è come fanno gli stilisti a prevedere il futuro, sapendo come cambieranno i gusti delle persone – dice ancora l’autore -. La risposta è che non lo sanno… Il futuro è qualcosa che da un lato si può direzionare, dall’altro svelare. Sono due processi radicalmente diversi che nella moda trovano un medium privilegiato».

Batilla ci porta i due casi esemplificativi di Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci che ha svelato il futuro con un progetto di “saccheggio” della parte divertente, leggera e colorata degli anni Sessanta e Settanta, e di Nicolas Ghesquiere, che ha creato per Dior decine di collezioni in ognuna delle quali ha raccontato qualcosa di nuovo rispetto all’articolazione del singolo capo, rendendo accettabile un dettaglio sbagliato: plastiche luminescenti, finta pelle, asimmetrie. Due modi opposti di costruire il futuro: dall’universale al particolare, dal particolare all’universale.
Quali sono i più grandi cambiamenti epocali che la moda sta interpretando? Chiediamo all’autore. «Sicuramente la fluidità dei generi e di decostruzione del binarismo maschio-femmina. L’inclusione in generale, partita dal mondo della musica e poi assorbita molto più velocemente dalla moda rispetto ad altri mondi, come arte e cinema, è affrontata in modo non problematico, ma costruttivo. C’è il grande tema della diversità di etnia e di canone estetico; basti pensare che sull’ultima passerella di Versace sono salite diverse taglia 52, un cambiamento epocale soprattutto per un brand che ha sempre lavorato su corpi perfetti».

Arriviamo alla E di E-Commerce. Secondo i dati statistici, si prevede che l’industria globale della moda raggiunga entro il 2022 i 713 miliardi di dollari e che il segmento dell’e-commerce relativo ad abbigliamento crescerà ad un tasso annuo del 10,6%. Sono nati marchi che esistono solo online e sui marketplace di Instagram e Facebook che parlano dietamente ai millennial e generazione Z e stanno avendo un successo straordinario. «Le mode sono un business gigantesco che tiene in vita, tra gli altri, molti giornali e una parte del bilancio di emittenti televisive italiane – commenta ancora Enrico Finzi -.Tuttavia dal punto di vista sociale il fenomeno moda sta perdendo peso; nel mondo occidentale c’è un disinvestimento cominciato con la prima grande crisi di questo secolo, nel 2008, che ha generato minore disponibilità di reddito per i consumi; non molto tempo dopo è arrivato il Covid, che ha reso incerto il futuro, ha diminuito i contatti sociali, generando un ripensamento generale delle priorità».

E poi la J di Jeans, che si collega al grande capitolo dell’etica e sostenibilità. Batilla ci spiega come «nel 2023 il mercato del denim arrivi a toccare la stratosferica cifra di 128 miliardi di dollari, inchiodando al primo posto il pantalone di jeans nella classifica dei capi più venduti al mondo. Ma contemporaneamente ci si aspetta che più o meno 7 miliardi di persone capiscano che questo iconico pezzo di abbigliamento è uno degli oggetti più inquinanti del mondo. Per fare un paio di jeans ci vogliono dai 6000 ai 10.000 litri di acqua, si emettono 33 kg di CO2 nell’atmosfera, e si usano coloranti a base di cianuro».
«A partire dall’ultimo decennio del Novecento la moda è diventata più orientata sotto il profilo etico. Basta pensare alle grandi campagne di boicottaggio delle pellicce, spia della presa di coscienza del consumatore di come l’abbigliamento possa comportare rischi per l’ambiente – spiega Laura Bovone, docente (già professore ordinario) di Sociologia della Comunicazione nella Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica di Milano -. A questi movimenti, primo segnale di una moda responsabile, si coniugano fenomeni più domestici come cooperative sociali, sistemi di riciclo. C’è da segnalare che, rispetto ad altre industrie, la catena di produzione dei capi di abbigliamento è più difficile da tracciare perché la lavorazione è complessa e frammentata. Il vero ribaltamento avviene quando sono le aziende, e non solo il consumatore, a farsi carico della sostenibilità».
Immagine di apertura: foto di Ben Scott