Milano 27 Novembre 2023
Se nella politica italiana c’è qualcosa di stabile e duraturo, dal dopoguerra a oggi, è l’antifemminismo. Se c’è qualcosa di trasversale, è ancora l’antifemminismo. La storia nazionale può essere raccontata proprio attraverso la granitica, e “bipartisan”, insofferenza del potere (maschile, ma talvolta perfino femminile) verso le ambizioni e le conquiste delle donne, o anche soltanto verso i loro tentativi di condividere compiti di responsabilità.
Ed è così che Mirella Serri, docente di Letteratura moderna e contemporanea, scrittrice e giornalista, rivisita gli ultimi ottant’anni di una tenace e malcelata resistenza, quella de “Gli uomini contro” – titolo del suo ultimo saggio, su La lunga marcia dell’antifemminismo italiano (Longanesi Editore).

Vero, la destra ha recuperato il suo ritardo nel portare la prima donna in parlamento (era il 1963, quando altri partiti avevano deputate fin dal 1946), insediando la prima presidente del Consiglio nella storia della repubblica, Giorgia Meloni, proprio mentre questo libro era in lavorazione: «Può essere che lei ci aiuti a fare passi in avanti» si è augurata in un’intervista a Radio Radicale la scrittrice, secondo la quale però la neo premier si sarebbe accorta della forza maligna della misoginia soltanto quando è stata esercitata nei suoi confronti. Negli ultimi anni quella opposizione guarnita di sorrisi e paternalismo o, all’occorrenza, di minacce e brutalità, è diventata forse meno sfacciata nelle stanze dei bottoni, ma non si è mai fermata dall’autunno del 1943, scelto dall’autrice come punto di partenza per la sua rassegna storica di “carriere” osteggiate da destra e da sinistra.
Le partigiane, per esempio. Rischiavano quanto (e peggio) dei compagni, se catturate dai fascisti o dai nazisti. E non sarebbe bastato a salvarle il loro ruolo secondario di staffette, messaggere o infermiere. Eppure. “È vietato distribuire armi alle donne” aveva detto un combattente a Carla Capponi che il 9 settembre del 1943, all’indomani dell’armistizio avrebbe soltanto voluto fare la sua parte. «In molte ce le chiedono. Ma non ne abbiamo abbastanza. Se ne torni a casa e stia tranquilla».

Tranquilla, no. Qualche settimana dopo aveva sfilato una pistola dalla cintola di un milite fascista su un tram affollato, senza che lui se ne accorgesse. Carla sperava di ottenere così l’affiliazione ai Gap, “Gruppi di azione patriottica”. Superò il suo battesimo del fuoco partecipando all’agguato contro un tenente colonnello della Wermacht. Diventò il braccio destro di Carlo Salinari, il capo dei Gap, e partecipò all’attentato di via Rasella contro un reparto delle forze di occupazione: 33 militari tedeschi uccisi e 110 feriti, poi vendicati con la strage nazista delle Fosse Ardeatine.
Era entrata nella Storia, Carla Capponi, si era meritata il grado di capitano, la Medaglia d’oro al valor militare e un seggio da deputata, ma certamente non un ruolo ai vertici del Partito Comunista. Furono 19, dopo la guerra, le combattenti alle quali fu assegnata una medaglia, 15 delle quali alla memoria: «Come mai l’ambito riconoscimento fu destinato soprattutto alle defunte? – si chiede Mirella Serri -. E come mai solo 19 donne furono riconosciute meritevoli su 35 mila partigiane, 20 mila patriote (che non presero le armi ma collaborarono con la Resistenza), decine di migliaia di aderenti ai Gruppi di difesa della donna (Gdd)?».

Sono domande retoriche, come si capisce approfondendo nei capitoli successivi l’ostracismo che Nilde Iotti dovette subire all’interno del suo stesso partito, il Pci, e perfino da Mosca dove Stalin la riteneva addirittura responsabile dell’attentato a Palmiro Togliatti. Secondo il segretario generale del Pcus, nonché erede di Lenin alla guida dell’Urss, era stata lei, compagna oltretutto illegittima del “Migliore”, ad aver allontanato la scorta. Destinata a diventare la prima donna presidente della Camera dei deputati, nel 1979, Iotti mal sopportava la sorveglianza stretta imposta alla coppia dai vertici comunisti.

E i vertici comunisti mal sopportavano le battaglie per la parità salariale e il progresso femminile (più che femminista) della compagna Nilde, cattivo esempio per le “madri e spose” fedeli ai dogmi della falce e martello.
Dall’altra parte, tra i nostalgici del Duce, “la presenza dell’altro sesso non era contemplata”, con qualche eccezione: delle riunioni dei camerati era ospite gradita la contessa Amalia Baccelli, che aveva offerto uno dei suoi appartamenti al filosofo Julius Evola. Pessimo maestro, avverte Mirella Serri: la sua ideologia misogina e antisemita ha avuto deleteria, e talvolta criminale, influenza su una generazione di giovani di estrema destra degli anni Settanta e Ottanta, fino all’attuale presidente russo Vladimir Putin, mal consigliato dal filosofo e ideologo Alexander Dugin.
Il libro arriva, e supera di poco, l’epoca di Silvio Berlusconi che, sì, amava circondarsi di donne anche in parlamento, ammette l’autrice, ma selezionandole più con l’occhio del seduttore che in base al loro curriculum o alla loro “efficienza professionale”. Un altro modo, insomma, di praticare l’antifemminismo. Quando il Cavaliere “scese in campo” il femminismo in Italia già non godeva di buona salute. «In una classifica dei livelli di emancipazione in Europa – informa Mirella Serri -, le italiane venivano prima delle cittadine di Grecia, Spagna e Irlanda, ma si collocavano molto più indietro delle donne di Danimarca, Gran Bretagna e Francia».

Il crollo della Prima Repubblica, e lo scioglimento dei partiti storici, come la Dc e il Psi, travolti dalle inchieste giudiziarie di “mani pulite”, sommersero anche il movimento femminista, ormai “fuori gioco, cancellato dalla storia”. Che avesse o non avesse nostalgie fasciste, Berlusconi “era mussoliniano nel ramificato intreccio che voleva costruire con il mondo femminile, visto come un inedito universo di commercio e scambio” sostiene l’autrice. «I suoi complimenti alle “belle delegate” della Fao, i suoi apprezzamenti sull’ex premier britannica Margaret Thatcher, “se fosse stata una bella gnocca me ne ricorderei”, le sue battute a doppio senso anche in contesti istituzionali contribuirono “a modellare, tramite tivù e giornali, la cultura antifemminista degli anni Novanta-Duemila». Gli procurarono imbarazzi a ovest e un ammiccante omaggio dal Cremlino: un lettone a tre piazze con i complimenti di Putin.
Immagine di apertura: una giovane Nilde Iotti ad un convegno a Roma (foto: Fondazione Nilde Iotti)
“10 agosto 1944: il primo distaccamento di donne combattenti della Brigata Eusebio Giamboni” cioè una va a “combattere” con collana in bella vista… Realtà: Foto falsissima, donne in posa vestite da civili.