Le aree ancora incontaminate del nostro malandato pianeta sono la salvaguardia principale, anzi indispensabile, della diversità delle specie, di quella ricchezza del mondo vegetale e animale che, data frettolosamente per scontata, sembra oggi terribilmente in pericolo. Questo il punto di arrivo del lavoro di Moreno Di Marco, biologo della conservazione dell’università La Sapienza di Roma, realizzato con l’ente nazionale di ricerca australiana e l’università del Queensland, pubblicato di recente sulla rivista inglese Nature. Di “perdita” della biodiversità si parla da tempo in riferimento alle aree più antropizzate e sfruttate sotto il profilo industriale, ma si sottovaluta quanto i bacini naturali del pianeta siano fondamentali per arginarla. Eppure queste terre selvagge sono state in gran parte distrutte dall’uomo: lo ha dimostrato uno studio pubblicato nel 2016 sulla rivista Current Biology da ricercatori dell’università del Queensland e della Wildlife Conservation Society (Società per la conservazione della fauna), capeggiati da James Watson, professore di Scienza della conservazione presso quell’ateneo. Stando a quel lavoro, oggi, esclusa l’Antartide, soltanto il 23,2 per cento delle terre del nostro pianeta si può definire ancora selvaggio; circa 30 milioni di chilometri quadrati. Va peggio per i mari: le aree libere da pesca industriale, inquinamento e navigazione sono ormai confinate nelle regioni polari (ancora ricche di tonni, squali e merlin). Se vogliamo fare qualche numero, dal 1993 al 2009, epoca in cui è stata condotta la ricerca, sono andati persi oltre tre milioni di chilometri quadrati di terre selvagge, un’estensione che supera quella dell’India. E in questi ultimi dieci anni l’erosione del patrimonio naturale di animali e piante, fondamentale per il pianeta, è andata avanti. Stando alla mappa elaborata dagli studiosi australiani, il 70 per cento delle ultime zone incontaminate, terrestri e marine, del pianeta è confinato in cinque paesi, Russia, Canada, Australia, Stati Uniti e  Brasile, anche se aree vergini sono ancora presenti in zone circoscritte della Cina, della Nuova Zelanda, dell’Algeria, della Libia, del Mali, del Chad, della Mauritania, della Norvegia e della Danimarca.

Foresta canadese, foto di Jondolar Schnurr

E quali sono queste “top cinque”? Le foreste di abeti della British Columbia, la tundra artica dell’Alaska ricca di muschi e licheni, la taiga russa ricoperta di conifere, l’Amazzonia con la sua enorme foresta pluviale, le zone  aride dell’Australia. Luoghi di grande bellezza, popolati da un’incredibile varietà di specie animali, dall’orso bruno all’alce, dalla tigre siberiana al lupo, di uccelli e di invertebrati. L’humus naturale del mondo, insomma. Ebbene, ora Di Marco con la sua ricerca dimostra che queste aree sono fondamentali per prevenire il rischio di estinzione di molte specie. Spiega il biologo: «Finora rimaneva tutto molto astratto. Il nostro gruppo è riuscito ad arrivare ad una quantificazione. Abbiamo utilizzato una piattaforma capace di stimare con una buona approssimazione la probabilità di perdita della biodiversità su scala globale, integrando poi i dati con la mappa delle aree selvagge pubblicata due anni fa dal gruppo di Watson. Siamo arrivati così alla connessione che mancava: le terre vergini conservano specie già scomparse altrove e sono l’anello “critico” per salvare la biodiversità».

Cascate dell’Iguazù, Brasile, foto di William Hludke

«Mi colpisce quanto è accaduto in Australia, dove ho vissuto quattro anni – prosegue Moreno -:  in pochi decenni si è perso il numero maggiore di mammiferi, soprattutto marsupiali. Nella piccola isola corallina di Bramble Cay, sullo stretto di Torres, a causa delle continue inondazioni dovute all’aumento del livello delle acque si è estinta una specie endemica di roditore, il Melomys rubicola, definito oggi il primo mammifero vittima dei cambiamenti climatici».

Torna in mente la storia del dodo, buffo e grande uccello che viveva a Mauritius: la leggenda narra che i portoghesi, arrivati sull’isola ai primi del Cinquecento, ne mangiarono tutti gli esemplari (il poverino era così grosso che, ahimè, non volava). In realtà l’uccello, la cui carne pare non fosse appetibile, scomparve in seguito all’alterazione del suo habitat per mano dell’uomo: disboscamento e inserimento di animali come maiali, gatti e cani, capaci di competere con lui nella ricerca del cibo. Una storia che ricorda quanto sta accadendo adesso con molte altre specie.

Tigre Siberiana, foto di Zoosnow

D’altro canto riportare a una condizione vergine ambienti modificati dall’uomo è quasi impossibile: bisogna tutelare quel 20 per cento che è rimasto.  Ma la realtà è allarmante: negli Stati Uniti una legge federale del 1964, la US Wilderness Act, protegge 37.000 chilometri quadrati di terre incontaminate, ma in altri Paesi queste aree non sono tutelate (manca, addirittura, una loro mappatura esatta), mentre lo sono solo in parte le foreste boreali del Canada. Quanto sta succedendo in Amazzonia, poi, è sotto gli occhi di tutti.

Emerge con chiarezza l’urgenza che i Paesi mettano in programma regolamenti del paesaggio e di gestione del territorio compatibili con il mantenimento di queste aree vergini nel lungo periodo, inclusi standard di sviluppo industriale che minimizzino l’impatto dell’uomo sulla natura.

Immagine di apertura: Uluru, il massiccio sacro per gli aborigeni, Australia, foto di Walkerssk 

Toscana, milanese di adozione, laureata in Medicina e specializzata in Geriatria e Gerontologia all'Università di Firenze, città dove ha vissuto a lungo, nel 1985 si è trasferita a Milano dove ha lavorato per oltre vent'anni al "Corriere della Sera" (giornalista professionista dal 1987) occupandosi di argomenti medico-scientifici ma anche di sanità, cultura e costume. Segue da tempo la problematica del traffico d'organi cui ha dedicato due libri, "Traffico d'organi, nuovi cannibali, vecchie miserie" (2012) e "Vite a Perdere" (2018) con Patrizia Borsellino, editi entrambi da FrancoAngeli. Appassionata di Storia dell'Ottocento, ha scritto per Rubbettino "Costantino Nigra, l'agente segreto del Risorgimento" (2017, finalista al Premio Fiuggi Storia). Insieme ad Elio Musco ha pubblicato con Giunti "Restare giovani si può" (2016), tradotto in francese da Marie Claire Editions, "Restez Jeune" (2017). Nel gennaio del 2022, ancora con Rubbettino, ha pubblicato "Cavour prima di Cavour. La giovinezza fra studi, amori e agricoltura".

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