Milano 27 Maggio 2024
Non era bello a vedersi. Non aveva velocità di collo e schiena, non possedeva gioco di gambe. Scarso di allungo, cercava ostinatamente la corta distanza fino al corpo a corpo. Non aveva varietà di colpi ma era regolare, metodico al punto da risultare micidiale. La sua boxe era disadorna e poteva apparire monotona. Ma era potente, resistente come il più incredibile degli incassatori.
Disponeva di un destro che si abbatteva sull’avversario come una sentenza inappellabile e che rimase la sua arma migliore anche dopo la tardiva scoperta del sinistro. Si ritirò ancora aureolato dalla corona mondiale dei pesi massimi, imbattuto, unico peso massimo della storia, dopo quarantanove incontri (quarantanove come i racconti di Hemingway), con quarantatré successi per KO. Vittorioso sul “bombardiere nero” Joe Louis, Jersey Joe Walcott, Roland LaStarza, Ezzard Charles (in due incontri), Don Cockell, Archie Moore e, a giudizio dell’intelligenza artificiale, più forte anche di Cassius Clay-Muhammad Alì. Si chiamava Rocco Marchegiano. Nella storia e nell’epica del pugilato è Rocky Marciano, detto “il bombardiere di Brockton”. Con Rocky Marciano blues, “Una storia in quindici round e dodici battute” (Roma, 66thand2nd editore) Marco Pastonesi, editorialista della Gazzetta dello Sport che della boxe sa essere cronista e storico, ricostruisce la vicenda sportiva e umana, iniziata con la nascita nel 1923 a Brockton, nel Massachusetts, culminata con il glorioso ritiro dal quadrato nel 1955, troncata il 31 agosto del 1969, un giorno prima del suo quarantaseiesimo compleanno, da un tragico incidente aereo a Newton, nello Iowa. Per una dolorosa, sinistra coincidenza, vent’anni prima la stessa morte nei cieli aveva rapito un altro grande della boxe: il francese Marcel Cerdan.
La storia di Rocco-Rocky prende le mosse nella terza classe del Canada, il piroscafo francese a vapore che il 14 marzo del 1912 imbarca Quirino Marchegiano da Ripa Teatina nella provincia di Chieti, con quattro compaesani abruzzesi e un carico di emigranti. Sbarcato a New York, Quirino diventa Pierino e si trasferisce a Brockton nel Massachusetts, dove l’attendono la moglie Pasqualina, venuta dal Beneventano, e il resto della famiglia. Lì, il primo settembre 1923, lancia il primo strillo Rocco Francis, uno dei sei figli. Buon ragazzo, nu buono quatrane, Rocco vede il padre ammazzarsi di lavoro perché in casa non manchino l’acqua, il pane, il caffè, le patate, i cavoli, i fagioli, il piccolo lusso dei funghi, il vino rosso del nonno nei giorni di festa. Vende i giornali agli angoli delle strade e porta ghiaccio e carbone a domicilio. Così si fa le ossa e i muscoli. Operaio, soldato nella Seconda Guerra Mondiale, il figlio di Pierino viene avviato alla boxe sotto le armi.
Il debutto come professionista avviene il 17 marzo 1947, alla Valley Arena di Holyoke, contro Lee Epperson (pratica chiusa al terzo round). Il 23 settembre 1952 mette KO Jersey Joe Walcott, togliendogli il titolo di campione del mondo dei pesi massimi. Epilogo il 21 settembre 1955, allo Yankee Stadium di New York City, quando stende alla nona ripresa il venerando ma ancora grande Archie Moore. Decide il ritiro. L’annuncio ufficiale il 27 aprile 1956, sette mesi dopo la vittoria sul vecchio Archie.
Negli anni che seguiranno il saggio paisà, idolatrato da milioni di emigranti, che si è costruito vita e agiatezza a suon di pugni, saprà resistere senza neppure troppa fatica al richiamo delle sirene che lo rivorrebbero sul ring. A parte l’incontro tecnologico con Clay-Alì (settantacinque round da un minuto, tredici versioni diverse e diverso il finale a seconda del pubblico a cui è destinata la versione, la prima nei cinema il 20 luglio 1970), ricomparirà sul quadrato come arbitro e per un incontro di solidarietà (uno scontro scherzoso) con e contro Bob Hope, al Madison Square Garden, l’11 febbraio 1968 (l’aveva preceduto, il 18 novembre 1954, quello con e contro Jerry Lewis, a Los Angeles). Per il resto pubbliche relazioni, programmi televisivi, due eventi con cortometraggi. Pastonesi racconta in quindici round (quanti quelli di un incontro di boxe) e dodici battute. Si spiega così il titolo, che fonde la musica nera e la parabola dell’ultimo pugile bianco sul trono dei massimi prima dell’avvento dei pugili di colore (se si esclude l’effimero regno dello svedese Ingemar Johansson), l’interregno Patterson-Liston, il dominio assoluto dei Clay, dei Frazier, dei Norton, dei Foreman, dei Tyson.
Non solo. Perché una domanda sopravvive e resiste. Che cosa hanno a che spartire i canti e le preghiere a Maria Santissima del Sudore, protettrice di Ripa Teatina, con le note di Bessie Smith, Robert Johnson, J.B. Lenoir, Champion Jack Dupree, B.B. King, Little Walter, Memphis Minnie, Sonny Boy Williamson, John Lee Hooker?
Che cosa avvicina blues e boogie al mondo del pugilato fatto di parole secche e sincopate, suoni di gong, getti di spugne e lanci di asciugamani? Ecco dov’è l’elegante, seducente artificio di Pastonesi. Il blues è “anche” struggimento, dolore, fatica. E il pugilato è “anche” tutto questo. Rocky Marciano dà il meglio di sé quando il combattimento si fa pura fatica, traligna nella sofferenza. Più la sofferenza aumenta, più cresce la forza e si esalta il suo talento. Il rude Rocky, compatto fino a risultare tozzo, si trasforma in macchina da pugni, metodica, sistematica, implacabile.
Mentre fuori dallo stadio che lo acclama si alza un blues.
Immagine di apertura: la statua in bronzo di Rocky Marciano, omaggio al campione del paese di origine del padre, Ripa Teatina (fonte: abruzzoturismo.it)