Milano 25 Aprile 2021
Potrebbero essere considerate quasi due ambasciate italiane “parallele”, almeno per la nostra arte moderna e contemporanea. A Londra e non lontano da New York due istituzioni si sono prefisse (per statuto) questo compito. E c’è un gran bisogno di quest’azione proattiva, perché in una realtà in cui prevalgono gli artisti anglo-americani (adesso anche quelli africani, dopo i cinesi che hanno spopolato per anni) sostenuti anche dal sistema Paese di appartenenza che, realizzando musei su musei, ne valorizza il lavoro, molti artisti italiani – sebbene internazionali nella loro pratica – hanno una vetrina succinta.

La Estorick Collection of modern italian art di Londra, dotata di una propria collezione di arte italiana del Novecento (con un centinaio di opere tra cui un ricco nucleo di quelle futuriste) riaprirà il 19 maggio. Ma intanto prosegue nei suoi talks illuminando la figura e l’opera di Giorgio Morandi (appuntamento il 6 maggio con la direttrice Roberta Cremoncini e Paul Coldwell, professore di Fine Art at University of the Arts a Londra). Ostaggio del Covid, la mostra Italian Threads: MITA Textile Design 1926-1976 è stata prolungata fino al 20 giugno. In questo caso si celebra un capitolo del glorioso made in Italy, quel settore tessile (dove anche artisti come Lucio Fontana o Getulio Alviani si sono cimentati) che ha contribuito al successo del design italiano, con punte di diamante come Gio Ponti ed Ettore Sottsass. MITA sta per Manifattura Italiana Tappeti Artistici (fondata a Genova nel 1926).
L’intelligenza imprenditoriale di Mario Alberto Ponis ha saputo coniugare stile e innovazione tecnologica (telai sempre più performanti) chiamando a collaborare al suo progetto estetico i migliori artisti e designer del suo tempo. Stoffe, arazzi, tappeti raggiungevano il mondo, insieme agli arredi creati per i mitici transatlantici (come l’Andrea Doria).

E se attraversiamo l’Atlantico d’un balzo, eccoci negli Usa, dove a Cold Spring (New York) Magazzino Italian Art, museo e centro di ricerca per la promozione dell’arte italiana, traccia da quattro anni un percorso puntuale di grande rilevanza (principalmente indirizzato all’Arte Povera) intrecciandola con la cultura americana. La mostra di questa primavera (dall’8 maggio, 50 opere esposte) è un vero “caso-studio” esemplare, storia di un immigrato di successo.

Il focus è su un artista sardo, Costantino Nivòla (1911/1988), nato a Orani, padre muratore. Ma con l’ambizione d’imporsi con il proprio talento, spiccando il volo dalla sua isola e planando a Monza. Per formarsi all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (ISIA), dove conosce Ruth Guggenheim, compagna di studi che poi sposerà, cominciando le prime importanti collaborazioni, tra cui quelle con la Triennale. Fugge dall’Italia fascista insieme alla moglie di origini ebree, destinazione Parigi, prima di arrivare a New York nel 1939. Nivòla si fa strada nel sogno americano mettendo le sue qualità artistiche al servizio dell’architettura modernista (l’incontro con Le Corbusier fu per lui un viatico) e di un’arte pubblica intesa come spazio di socializzazione, rendendo i luoghi urbani epicentro di relazioni. Conosce i principali esponenti di quell’avanguardia artistica americana (tra questi Jackson Pollock) che segnerà la definitiva eclissi di Parigi quale centro per l’arte mondiale.

Quindi è l’architettura a veicolare il genio creativo di questo artista italiano (che, in qualità di scultore, fu anche consulente per lo spostamento dei monumenti di Abu Simbel, in Egitto). Negli USA realizza facciate di edifici, il murale per il negozio Olivetti in 5th Avenue nel 1954, il Bridgeport Post, il Bolling Federal Building a Kansas City, la Janesville Gazette e la William E.Grady Vocational High School a Brooklyn. Poi altri lavori per alcuni atrii di edifici come quelli del Continental Building di Philadelphia o del Legislative Office Building di Albany. Nivòla si distingue però anche per una personalissima tecnica scultorea e per la materia con la quale forgia le sue opere quasi giocasse alle “formine”, il sandcast, ossia una miscela di sabbia e gesso compressa in stampi, passando poi anche all’utilizzo del cemento. Nel 1964, Nivòla insieme all’architetto Richard Stein, dà vita a una grande opera di arte pubblica: il parco giochi delle Wise Towers nell’Upper West Side di Manhattan (all’epoca quartiere di edilizia popolare), all’angolo tra la Columbus e la Amsterdam.

Un intervento in situ composto da una fontana centrale, un sand casting, una scultura tridimensionale, diciotto cavallini in cemento (richiamo di quelli a dondolo ma anche alle terracotte giapponesi Haniwa), e un graffito murale. Ma ciò che il tempo aveva finora preservato intatto, l’avanzata incurante del Real Estate (il management del Pact Renaissance Collaborative sta “riqualificando” l’area) ne ha fatto scempio. A colpi di mazzate alle estremità, i cavallini di sandcast sono stati asportati dal playground, deturpando per sempre l’insieme di questo progetto di public art. Questo scempio ha riproposto però all’attenzione di tutti la figura di questo artista, forse un po’ appannata, ma che invece merita una riscoperta (a Orani il museo intitolato a Nivòla).

Dunque vari elementi rendono questa mostra americana particolare (curata da Teresa Kittler e da Chiara Mannarino, in collaborazione con la Fondazione Nivòla e l’Ambasciata italiana a Washington D.C.) e anche molto attuale. Magazzino è stato co-fondato dalla coppia Nancy Olnick e Giorgio Spanu, di origine sarda. Un orgoglio da conterraneo che si salda con quello di un artista che negli USA si è conquistato molto più di quei 15 minuti di celebrità che Andy Warhol ha profetizzato per tutti noi.
Immagine di apertura: Costantino Nivòla, “Senza titolo”, studio per il negozio Olivetti di New York, tecnica sandcast policromatica, Famiglia Nivòla (foto di Marco Anelli). Magazzino Italian Art