Milano 27 Settembre 2024

L’India è un Paese dai mille volti e dalle mille contraddizioni, diviso fra modernità e oscurantismo, avanzato nella crescita economica e culturale, ricco di natura, odori, sapori e colori, ma ostinatamente ancorato alla divisione sociale in caste, a profondi conflitti religiosi (indù/musulmani), alla negazione dei diritti civili e politici alle donne e alla indiscutibile sottomissione delle stesse al volere del capo-famiglia.

La copertina del libro “Il canto dei cuori ribelli”, di Thrity Umrigar, pubblicato in Italia da libreria Pienogiorno

Proprio quest’anno si è avuta la conferma ennesima di questi contrasti dopo le elezioni legislative (durate 44 giorni, conclusesi il 4 giugno) in quella che pomposamente viene definita “la democrazia più grande del mondo” (quasi 1 miliardo di votanti). L’opposizione e le organizzazioni per i diritti umani hanno accusato il vincitore, Modi, di favorire gli indù a discapito delle minoranze, tra cui 210 milioni dì musulmani. È proprio il riflesso dei problemi di questo immenso Paese che emerge dal libro Il canto dei cuori ribelli ( libreria Pienogiorno) di Thrity Umrigar, scrittrice contemporanea di origine indiana, naturalizzata americana, che collabora con testate giornalistiche importanti (New York Times, Washington Post) e autrice di bestseller dalle storie intense e coinvolgenti.
Protagonista di quest’ultima narrazione è proprio una corrispondente indiana / americana, Smita Agarwal, che all’età di quattordici anni ha lasciato Mumbai (nota come Bombay fino al 1995), sua città natale, capitale dello stato Maharashtra, per trasferirsi negli Stati Uniti con la famiglia. Il suo è stato un esodo forzato, dettato da eventi traumatici che hanno interrotto la sua felice infanzia, quasi adolescenza nel paese amato. Come avviene in queste situazioni umane, Smita ha rimosso il passato, assumendo appieno usi e costumi americani, ma il suo lavoro e il destino la riportano nella città natale. Deve seguire, infatti, una storia di cronaca per il suo giornale, in sostituzione della collega-amica Shannon Carpenter, corrispondente dal sud-est asiatico, che deve subire un’operazione chirurgica.

Una giovane donna indiana con la sua bimba (foto di nicolas debraypointcom)

Amore e odio si intrecciano nelle sue emozioni all’arrivo a Mumbai: intolleranze per sovraffollamento (la città con oltre 20 milioni di abitanti è una delle più popolose al mondo), frastuono, gas di scarico, caldo eccessivo, ma, percorrendo strade note, anche ricordi nostalgici di una vita precedente legati, in particolare, a sua madre deceduta da poco. Per amicizia e dovere non può sottrarsi all’incarico ma «si sentiva così estranea nella città in cui era nata che avrebbe pagato un milione di dollari per essere riportata al suo appartamento monastico e silenzioso di Brooklyn». Il pensiero della permanenza temporanea, comunque, placa la sua inquietudine.
La vicenda di cui deve occuparsi riguarda una giovane donna, Meena, che ha osato ribellarsi al volere del capo-famiglia, sposando Abdul Mustafa, un ragazzo di religione diversa. I due fratelli di Meena danno fuoco alla coppia per lavare il disonore e così uccidono lui e sfigurano la sorella. La giovane donna, viva e sofferente nel corpo, ma morta nell’animo, viene assalita da una sete di giustizia e, spinta da una volontà di ferro e dall’aiuto gratuito di un avvocato, denuncia i fratelli e li porta in tribunale.

Una suggestiva immagine notturna de il Portale dell’India, a Mumbai, eretto fra il 1911 e il 1914 (foto di Simon)

E così dalla rutilante e caotica Mumbay, Smita, accompagnata da Mohan, un amico di Shannon, si addentra in quel mondo rurale, ancora massicciamente legato a tradizioni medievali, dominato da una società patriarcale, profondamente ignorante e superstiziosa, guidata da un capo-villaggio subdolo che manipola con le sue doti pseudo-magiche quel gruppo di fanatici induisti. Il villaggio di Birdwad, dopo il confine fra il Maharashtra e il Gujarat, è il simbolo del lato più crudele e feroce dell’India. Ed è qui che si consuma la tragedia finale di Meena. La poveretta, dopo la morte del marito, è costretta a vivere con la sua bambina, frutto dell’amore con Abdul, nella fatiscente capanna della suocera, che la odia per aver provocato la morte del figlio. Aspetta il verdetto. Ma i giudici corrotti assolvono i fratelli, decretando la sua lapidazione. Prima di morire, però, affida la sua bimba a Smita e Mohan.
Meena e Abdul; lei rappresenta il coraggio della ribellione, dettato dall’amore e dalla volontà di creare un precedente per tutte le donne indiane; lui è il simbolo del futuro possibile per l’India, connotato da convivenza pacifica fra indiani, al di là di ogni credo religioso e, per questo, temuto e odiato dai fanatici fratelli. «Aveva visto se stesso e sua moglie come esponenti di una nuova India, aveva pensato alla figlia non nata come un’ambasciatrice di quella nuova nazione».
Smita, dopo tutte le vicissitudini e il confronto continuo con Mohan, si riappropria della sua cultura d’origine, ancora intatta nella profondità del suo animo e si ritrova a pensare ad una società americana opulenta e viziata. «Che le piacesse o meno questa era la sua terra e lei si sentiva chiamata in causa dalla sua morale distorta e dalle sue contraddizioni» Trae dolore e salvezza dall’incontro con Meena, affronta i ricordi delle umiliazioni subite, ma si libera dalla sua chiusura emotiva e si apre all’amore, cambiando i suoi piani futuri.
Sembra una delle tante fiction di Netflix.

La scrittrice indiana, naturalizzata americana, Thrity Umrigar (fonte: artsatl.org)

Invece la storia è ispirata a fatti realmente accaduti e, in particolare, come dice l’autrice nelle considerazioni finali dopo l’epilogo, «agli articoli scritti da Ellen Barry sulle condizioni oppressive delle donne in alcune zone dell’India rurale». Affronta tematiche umane (amore, amicizia, dolore, lealtà) e sociali (diritti negati, rapporto amore/odio in terra natia) importanti e sottolinea quanto sia ancora dura e diversa la vita, soprattutto per le donne, in molti paesi del mondo. Basti ricordare come in Afghanistan, dalla scorsa primavera, la lapidazione delle donne sia diventata nuovamente una pratica ammessa dalla legge.
Per questo il libro è consigliabile. Oltretutto la lettura è piacevole grazie ad una trama ben strutturata, chiara e lineare nei suoi passaggi, veloce e abbastanza avvincente nel ritmo. La scrittura è semplice e fluida. Fin dalle prime pagine, però, un lettore esperto può già prevedere l’evoluzione della storia tutta e soprattutto quella del rapporto fra la giornalista e il suo aiutante-interprete, che rende il finale scontato. Potrebbe risultare molto adatto ad una trasposizione filmica o televisiva. Bollywood non si farà pregare.

Immagine di apertura: lo skyline di Mumbai, la vecchia Bombay, una delle città più popolose del mondo (foto di Andy Batt)

Nata a Noci (Bari) sull’altopiano delle Murge, è laureata in Lettere Classiche all’università Cattolica di Milano, città dove ha poi sempre vissuto e insegnato nelle scuole medie e in quelle superiori. Ama viaggiare, cucinare, frequentare i concerti, ma soprattutto leggere. E’ "un'appassionata" di parole scritte, soprattutto sulla carta e non su kindle.

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