Milano 28 Ottobre 2022
Il cambio euro-dollaro è sceso ai minimi nello scorso mese di settembre, facendo un passo indietro di quasi vent’anni. Anche se nelle settimane successive il rapporto è tornato intorno alla parità, la moneta comune europea si trova ai livelli più bassi della sua ancor breve storia. E secondo alcune stime potrebbe scendere ancora prima della fine dell’anno. Nemmeno i robusti rialzi del tasso di interesse decisi finora dalla Bce, la Banca Centrale Europea, sono riusciti finora a rivitalizzare l’euro. La caduta nei confronti del biglietto verde (che peraltro si sta rafforzando anche rispetto alla sterlina e al franco svizzero) è dovuta essenzialmente a due fattori: 1) i timori di una recessione nel Vecchio Continente, aggravata dall’inasprimento della crisi energetica e 2) l’avversione al rischio che induce gli investitori internazionali a puntare sulla valuta Usa come bene rifugio da utilizzare in tempi di incertezza come quelli attuali.
Una moneta debole non è certo il miglior biglietto da visita per una nazione, almeno dal punto di vista simbolico. In questo caso però è l’intera Unione Europea, cioè un insieme di Paesi, a soffrire di un danno di immagine. Eppure, non è detto che la svalutazione dell’euro sia un fatto completamente negativo. Anzi, per alcuni settori economici e per alcuni Paesi, potrebbe trattarsi di una situazione estremamente favorevole. Per quanto riguarda l’Italia, per esempio, ai tempi della lira le autorità monetarie avevano addirittura provocato la perdita di valore della moneta, facendo ricorso alla cosiddetta svalutazione competitiva. Una manovra (o un banale espediente, come molti la considerano) alla quale i governi, d’intesa con le rispettive banche centrali, ricorrevano per rilanciare la competitività delle imprese attraverso l’export. Non per nulla a richiederla erano state espressamente le aziende che realizzavano all’estero gran parte del proprio fatturato. La valuta che incassavano, convertita in quella locale svalutata, si traduceva in maggiori ricavi nominali e, di conseguenza, in maggiori utili.

Oggi la pratica è in disuso, quanto meno nei Paesi più evoluti e con una moneta diffusa a livello internazionale. E nel caso dell’euro sarebbe impossibile da realizzare, perché richiederebbe l’adesione unanime di tutte le banche centrali dell’Unione. Ma ricordarla serve a spiegare meglio di ogni altro esempio che qualche volta la debolezza di una valuta può diventare un vantaggio. Non per tutti, ovviamente. Oggi le differenze esistono all’interno della stessa area euro. A questo proposito, oggi come ai tempi della lira, all’Italia potrebbe convenire una moneta debole, soprattutto in relazione al dollaro. Tutta la filiera del Made in Italy, a cominciare dalla moda, ne risulta avvantaggiata, perché la maggior parte dei costi sono espressi in euro e la maggior parte dei ricavi in dollari o in valute legate al dollaro. Per queste aziende, più l’euro scende e più cresce il loro margine. Un altro comparto ad essere favorito è quello del turismo. L’Italia è una delle mete preferite dagli stranieri, soprattutto da quelli con maggiori disponibilità, che utilizzano la moneta Usa. In questo caso però i vantaggi per alberghi e strutture ricettive, che pure esistono, non sono così netti. Così come non lo sono per un’altra eccellenza italiana, come è certamente l’industria alimentare. In entrambi i casi gli operatori dovrebbero fare i conti con l’aumento delle spese generali e di alcune materie prime (come i fertilizzanti per gli agricoltori) che vengono acquistate all’estero a prezzi espressi in dollari.

Insomma, come sempre accade in economia, anche le variazioni che riguardano i rapporti di cambio tra le monete possono procurare vantaggi e svantaggi alle aziende, a seconda del comparto cui appartengono. L’impennata dei prezzi dell’energia, dal gas al petrolio (normalmente espressi in dollari), hanno avuto ricadute pesanti sui conti di molte categorie di imprese. Prime fra tutte quelle che per operare hanno bisogno di un forte consumo di energia, come quelle che appartengono al settore dell’edilizia, ma anche quelle che producono beni e servizi industriali. La lista di chi ci perde con l’euro debole non finisce certamente qui. Chi importa componenti tecnologici (tipico è il caso dei microchips) si trova naturalmente ad essere penalizzato. Questa categoria comprende gli operatori italiani dell’information technology, costretti spesso a pagare in dollari e a rivendere in euro. Nell’alimentare, le imprese trasformatrici non si rivolgono soltanto alla produzione agricola nazionale, ma spesso e in misura significativa dipendono dall’import. Salmone, cacao, frumento, banane e noci sono alcuni tra i tanti prodotti che arrivano dall’estero e sono destinati alla trasformazione. Anche se i prodotti finiti sono in gran parte destinati all’export, una fetta consistente dei costi aziendali risentono del caro-dollaro. L’elenco è certamente incompleto. Gli esempi fatti servono comunque a dare un’idea di come sia complicato attribuire a questa o quella tipologia di impresa vantaggi e svantaggi legati al valore mutevole delle monete. Per questo esistono le assicurazioni contro il rischio di cambio. Fare profitti sulle oscillazioni dei cambi è possibile ma è anche davvero molto rischioso.
Immagine di apertura: foto di Tumisi