Milano 27 Aprile 2025

È possibile liberarsi dai genitori? È possibile per un individuo “sradicarsi” completamente dalle origini? Può questo strappo non lasciare un vuoto interiore? Sono gli interrogativi che pervadono L’anniversario (Narratori Feltrinelli), l’ultimo libro dello scrittore e poeta romano, Andrea Bajani, già vincitore nel 2007 del premio Recanati, del Premio Brancati e del Super Mondello con Se consideri le colpe edito da Einaudi. Un figlio, all’età di 40 anni, decide di abbandonare definitivamente la sua famiglia “disfunzionale”, di cui analizza in modo approfondito le dinamiche malate e celebra il decimo anniversario dalla cesura, attuata senza rimorsi e con un gran senso di liberazione.

La copertina del libro di Andrea Bajani “L’anniversario”, pubblicato da Feltrinelli

«”Tornerai a trovarci?” gli chiese la madre sulla soglia della porta… A quella domanda non c’è mai stata una risposta… Dieci anni fa, quel giorno, ho visto i miei genitori per l’ultima volta. Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente…sono stati i dieci anni migliori della mia vita». Incipit shoccante che può scuotere il sentire comune della nostra società, abituata a ritenere l’istituzione familiare intoccabile e ad identificarla con il nido protettivo, visione a volte sconfessata dalla realtà, che vi individua spesso la prima fonte del disagio e della sofferenza umana. L’io narrante è il figlio che sente la necessità di un’opera di finzione per fare i conti con il suo passato familiare, attraverso frammenti di memoria, sensazioni, emozioni. Parte dalla madre, la cui caratterizzazione appare subito impietosa. Silenzio, invisibilità, apatia, rinuncia alla vita sono le sue note caratteristiche; figura assoggettata ad un marito autoritario, irascibile, totalitario. La mente del figlio non ha trattenuto sue immagini e suoi ricordi, né ha mai ritenuto necessario parlare di lei, perché «la porzione che lei occupava era così trascurabile da non chiedere udienza». Scorporarla dal padre risulta un’impresa difficile e richiede il ricorso all’invenzione romanzata più che alla memoria reale. Lei doveva occuparsi sì dei figli, ma poi rendicontare su di loro e “consegnarli al principale”.

Il figlio lascia la famiglia, cambia città, indirizzo, numero di telefono.. (foto di Andreas 160578)

«Quello che mia madre viveva era un patriarcato differente, più vicino al totalitarismo: mio padre teneva i conti, guidava l’auto, stabiliva le linee dell’educazione di noi figli, si occupava della nostra istruzione, e a lei restava la questione spicciola del cambio letti, cucina e pulizia. Ovvero, lei stava dentro un potere assoluto in cui il marito era la voce e il braccio della legge». Il controllo del patriarca era capillare, investiva anche il gruppo di pseudo-amiche, mamme di compagni di scuola, in particolare una di loro che forse sarebbe stata capace di indurre sua moglie alla ribellione, ma che, “per fortuna”, morì prematuramente, dando adito a lui di confermarsi come portatore di morte nel caso l’avesse augurata a qualcuno. E in questo caso l’aveva proprio augurata! E poi, dopo il colpo ferale del trasferimento dalla città in un paesino del Nord di 800 anime, dove il padre, che scappava da una situazione incresciosa, doveva reinventarsi, la madre finì «dentro il silenzio più pneumatico che in poco più di 700 chilometri inghiottì lo spazio e il tempo. Anche l’arrivo del telefono in casa, che poteva favorire i contatti almeno con i suoi genitori, si manifestò fallimentare, perché sottoposto dal capo indiscusso a rigide regole di risparmio economico e verbale». Il figlio, a questo punto, dopo aver ricostruito la storia pre-matrimoniale dei due genitori e analizzato i loro retaggi, va nel profondo dei loro meccanismi mentali per capire le ragioni di tanto dispotismo paterno e di tanta passività della madre che «aveva scelto di essere niente per poter lui essere qualcosa».

Un uomo padre-padrone e una moglie succube, relegata solo a mansioni domestiche (foto di Tumisu)

Cita due episodi di violenza inaudita, uno contro la mamma e un altro contro di lui, in cui la donna non denuncia il marito né difende il figlio. «In ogni scena di violenza mia madre guarda altrove. Più che il corpo di mio padre che sovrasta è quello di lei che si sottrae. Quel sottrarsi, per timidezza o per timore è quello che mi resta». Ma il figlio capisce che quelle sfuriate, così abnormi da spingere la madre a gesti di abiezione, erano richieste d’amore, mentre l’accondiscendenza materna rappresentava il tentativo di prevalere su di lui, inducendolo con il silenzio e il pianto sommesso a chiederle perdono. Suo padre era un uomo fragile che esercitava in casa quel potere che la sua vita fallimentare non gli consentiva all’esterno. «La paura, nelle forme dell’intimidazione, era il suo strumento primo, l’unico a cui ricorreva quando non sentiva arrivare amore a sufficienza».

La sorella del protagonista si è ribellata al clima di violenza che c’è fra i genitori e rimprovera al fratello la sua vigliaccheria

Il figlio analizza anche se stesso, riconosce di essere stato un vile, che non ha mai osato opporsi alla violenza materiale e psicologica, in contrasto con l’atteggiamento della sorella che gli rinfacciava «di aver scelto la prostituzione alla lotta congiunta contro il tiranno e di aver così dilapidato ciò che era loro capitato in sorte: l’essere fratelli». E così il figlio, dopo un percorso terapeutico sui generis e, dopo un periodo di lontananza fisica, opta per l’abbandono definitivo.
È un libro breve, ma intenso, perché costringe a domandarsi se la famiglia d’origine può diventare una persecuzione. Un libro doloroso che può suscitare un senso di fastidio nella demolizione genitoriale. Mette a nudo il male che talvolta si annida in una famiglia “disgraziata”, male spesso invisibile all’esterno e coperto, in alcuni casi, da ipocrisia e perbenismo. Ricorda molto un certo patriarcato italiano, diffuso soprattutto durante il periodo fascista e nel dopoguerra. E non completamente scomparso.
Lo scrittore narra il dramma familiare in modo “spaventosamente calmo”, come scrive Emmanuel Carrère nella striscia di copertina, distaccato, senza dare nomi propri ai personaggi e alle località, puntando a far emergere la verità psicologica al di là del caso contingente. E lo fa con una scrittura limpida, asciutta, rigorosa, soprattutto nelle parti più introspettive. Sembra lo sguardo di un entomologo. Sotto la lente stavolta, però, c’è la famiglia con le sue radici, che diventano una opprimente, insopportabile, zavorra.

Immagine di apertura: foto di Anemone 123

Nata a Noci (Bari) sull’altopiano delle Murge, è laureata in Lettere Classiche all’università Cattolica di Milano, città dove ha poi sempre vissuto e insegnato nelle scuole medie e in quelle superiori. Ama viaggiare, cucinare, frequentare i concerti, ma soprattutto leggere. E’ "un'appassionata" di parole scritte, soprattutto sulla carta e non su kindle.

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