Firenze 21 Dicembre 2021
Cinquant’anni fa, nel 1970, usciva nelle sale (prima prova da regista di Enrico Mario Salerno) Anonimo Veneziano. Fu un successo clamoroso, tanto da superare negli incassi Love Story, la storia d’amore più famosa degli anni Settanta. La sceneggiatura era di Giuseppe Berto (1914-1978), che l’anno dopo ne propose una versione teatrale, edita da Rizzoli, sulla base dei “dialoghi con didascalie”, andando controcorrente rispetto ai consueti passaggi che vedono film tratti dal romanzo e non viceversa. Versione che suscitò un coro di polemiche, giudicata un’operazione commerciale sull’onda del successo del film. Berto in seguito trasformò il testo in un romanzo breve, pubblicato da Rizzoli nel 1976, riproposto nel 2005 nella BUR con una presentazione inedita dell’autore e nel 2018 da Neri Pozza con un’introduzione di Cesare De Michelis.

Una vicenda importante per Berto, ma c’era una ragione: la drammatica e dolorosa condizione di vita vissuta dall’autore riversata nella trama del film e successivamente nell’omonimo romanzo. Nel film Enrico (interpretato da Tony Musante) suonatore d’oboe alla Fenice di Venezia, sapendo di essere condannato a morte a causa di un cancro al cervello, decide di invitare a Venezia l’ex-moglie Valeria (interpretata da una splendida Florinda Bolkan) per rivelarle la sorte che lo attende. Sconvolta e mossa a compassione, lei non vorrebbe ritornare a Milano, dove vive assieme al loro figlio e ad un altro uomo. Lui, invece, dopo averle dimostrato che non si sente più solo quando, nella sua casa attrezzata a studio di registrazione, suona l’oboe – nell’improvvisata prova d’orchestra per il concerto in re minore Anonimo Veneziano di Alessandro Marcello – la convince a partire per non obbligarla a sopportare oltre il suo mal di vivere.

La sofferenza del protagonista è la stessa che Berto, colpito da un cancro, affrontava da molti anni. Nel 1964 aveva rivelato di poter sopportare quel mal di vivere quotidiano grazie alla scrittura del romanzo-fiume Il male oscuro, così come farà, ricorrendo alla musica, il protagonista di Anonimo Veneziano, il romanzo scritto nel 1976.
Oggi Giuseppe Berto appare uno scrittore pressoché dimenticato, nonostante il valore del suo primo romanzo Il cielo è rosso, capolavoro del neorealismo italiano, e dell’ ultimo successo editoriale rappresentato da Il male oscuro narrato secondo lo stile del “flusso di coscienza” – alla maniera dell’ultimo capitolo dell’Ulisse di James Joyce – con lo stesso intento di operare una dissoluzione delle tradizionali strutture narrative. Nonostante queste indubbie qualità, di Giuseppe Berto non si sente più parlare.

Quelli che lo ricordano, quando raramente lo fanno, dicono che la ragione di questa damnatio memoriae non è dovuta al valore delle sue opere, ma alle sue idee politiche. Berto era stato da giovane un avanguardista e da soldato un ufficiale della milizia spedito, dopo il disastro di El Alamein, a Misurata come egli stesso ricorderà nel volume-diario Guerra in camicia nera edito nel 1955.
Fatto prigioniero in Tunisia nel maggio del 1943, dopo l’8 settembre lo scrittore fu trasferito nel campo di concentramento di Hereford nel Texas dove ebbe per compagni di prigionia Gaetano Tumiati e Alberto Burri. Rientrato in Italia, da quella esperienza trasse spunto per scrivere alla fine del 1947 Il cielo è rosso, storia di un gruppo di ragazzi innocenti e crudeli che la guerra abbandona al loro destino, ma che nella Treviso devastata ritrovano umanità e solidarietà.
Il romanzo riscosse un immediato e clamoroso successo internazionale. L’anno successivo vinse il Premio Firenze per la letteratura e diventò poi un film per la regia di Claudio Gora.

Per uscire dall’ostracismo che la cultura dominante cominciava a riservargli, negli anni Cinquanta pubblicò Il brigante e Le opere di Dio, nell’illusione che gli intellettuali potessero contar qualcosa nella riorganizzazione della società del dopoguerra. Ma non servì a niente. Come ebbe a scrivere in quegli anni Corrado Piancastelli: «A destra lo ritengono di sinistra, i comunisti pensano che sia ancora fascista. Egli, dal canto suo, è convinto di essere un anarchico». Il successo, come abbiamo già accennato, tornò a sorridergli nel 1964 con Il male oscuro. un libro che egli definì “opera nata come fatto liberatorio da una nevrosi” dalla quale con infinita pazienza cercò di trarlo fuori uno psicanalista, mentre il romanzo andava a conquistare il pubblico e a vincere due premi letterari di assoluto rilievo: il Viareggio e il Campiello. A distanza di dieci anni con Oh, Serafina avrebbe vinto anche il Bancarella.
Giuseppe Berto è morto nell’autunno del 1978 poco dopo la pubblicazione del suo ultimo romanzo, La gloria, una contraddittoria riabilitazione di Giuda Iscariota. Era una interrogazione sincera e coinvolgente sul mistero del male che fu giudicata eretica dall’ambiente letterario verso il quale lui nutriva un’antipatia manifesta dovuta, forse, al desiderio di esservi accolto una volta per tutte senza riserve.
Alla base del suo temperamento c’era un forte desiderio di protagonismo che lo faceva sentire, benché ripetutamente premiato, un incompreso. Il cancro e la nevrosi lo resero infelice fino agli ultimi giorni di vita durante i quali ebbe tuttavia la forza di comporre una breve apologia della Calabria dove a Capo Capitano, come aveva scritto, si era costruito «un rifugio di pietre pensando che questo potrebbe andar ben come luogo della mia vita e della mia morte».
Immagine di apertura: Tony Musante (Enrico) e Florinda Bolkan (Valeria) in una scena di “Anonimo Veneziano”
SONO ALLA RICERCA del testo teatrale di ANONIMO VENEZIANO che Giuseppe Berto scrisse dopo il film e la pubblicazione dell’ omonimo romanzo
ringrazio per quanto sarà possibile aiutarmi
Bruno Frusca
Caro Bruno, lo trova su Amazon ma anche su Maremagnum (la copertina è quella che è stata riprodotta nel servizio)
cordialità
ilbuongiorno