Il giornalista e scrittore Mario Pappagallo nel suo ultimo libro, Il genio in cucina. Leonardo, la leggenda del codice Romanoff e le tavole dei signori edito da Giunti, mette in risalto l’amore del genio rinascimentale per il cibo, per la tavola e, più in generale, per una vera e propria cultura del buon e bel mangiare. Pur non esistendo alcun documento esplicito che lo attesti, il profondo interesse di Leonardo per il cibo e la cucina lo si sente traboccare dalle sue opere e dai suoi dipinti ma soprattutto dai riscontri dei contemporanei sugli eventi che organizzò come Gran Maestro di feste e banchetti alla corte di Ludovico il Moro. Lo testimoniano anche numerosi fogli del Codice Atlantico ed è certamente evidente ne L’Ultima cena. Tuttavia Leonardo non solo fu tutto questo e lo fu ante litteram, ma mise anche le basi per una futura scienza riabilitativa che passa dalla cucina e dal suo utilizzo come strumento di vitale importanza per riequilibrare lo stato psichico del soggetto.

Quella che oggi definiamo “cucinoterapia” infatti, ha lo scopo di creare una sorta di camera di compensazione tra il desiderio squisitamente animalesco di introdurre cibo a sazietà e oltre (soprattutto per sanare carenze affettive), e la già citata cultura del buon e del bel mangiare. La cucinoterapia si utilizza fino dagli anni Sessanta del secolo scorso in ambito psichiatrico come parte di un percorso riabilitativo soprattutto nelle comunità terapeutiche che hanno sostituito i vecchi ospedali psichiatrici, dove prende il nome di “gruppo cucina”. L’obiettivo è definire uno spazio protetto all’interno del quale permettere il recupero o l’acquisizione di specifiche competenze verso una sempre maggiore autonomia funzionale. Si parte così dalla scelta del piatto da preparare, passando per l’acquisto degli ingredienti necessari, fino alla preparazione concreta della ricetta. Gli utenti/pazienti gestiscono l’attività con la supervisione di un operatore che cerca di stimolare le capacità organizzative e manuali dei soggetti. Come in una vera cucina in cui lo Chef “comanda” la sua “brigata” con piglio militaresco, l’organizzazione stimola il senso del gruppo.

Dalla storia della psicoanalisi inoltre scopriamo che Marie Luise Von Franz, analista e allieva prediletta del grande psichiatra Carl Gustav Jung, all’inizio di una seduta invitò una paziente ad accompagnarla in cucina per mettere un pollo in forno. Al termine della seduta ne verificò, ancora in compagnia della paziente, il perfetto stato di cottura. Questo simpatico aneddoto, oltre a rappresentare in qualche modo un “gesto terapeutico”, mette in risalto come il cucinare altro non è che un “trasformare”, nello stesso modo in cui lo è il percorso psicoanalitico. Senza dubbio quel giorno l’analista e la paziente avranno riflettuto sul cucinare come metafora della vita, sul senso del tempo, sui sapori. Ma anche sull’eleganza e raffinatezza del luogo dove si cucina o si consumano i pasti, e forse sul senso di generosità e umanità dell’atto stesso.
Ecco che ci vengono in soccorso proprio quegli argomenti che anche Leonardo, in pieno contrasto con i suoi tempi ancora barbari, appalesò per la prima volta. Ad esempio, la divulgazione delle buone maniere in campo culinario e l’apparecchiatura della tavola, a quei tempi inesistente; la cucina come ricerca di nuove consonanze di gusti; l’estetica del cucinare e del bel mangiare; la sperimentazione di quell’artigianalità del fare che coincide con quella del pensare, connettendosi strettamente con la promessa, spesso mantenuta, di una riabilitazione a livello psichico. In buona sostanza, tutto ciò con cui veniamo in contatto con modalità “culturale” in ambito riabilitativo, rappresenta una parte della terapia.
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