Milano 27 Gennaio 2022
Codogno e Bergamo, febbraio 2020: scoppia il caso Coronavirus. Da allora abbiamo vissuto lockdown, ospedali intasati, rianimazioni al collasso. E per due anni la pandemia ci ha dato ben poche e illusorie tregue. Ora il Direttore della Comunicazione di un grande ospedale dell’area milanese ci racconta che cosa hanno rappresentato questi lunghi mesi per i medici, i ricercatori, gli infermieri e tutto il personale sanitario.
«Sono passati due anni. Ricordo i primi giorni di quella che sarebbe stata battezzata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità la pandemia Covid-19. Come una nebbia che diventava a poco a poco più fitta, fino ad arrivare ad avvolgere l’ospedale e la sua gente. Il rincorrersi delle voci, l’interpretazione delle notizie provenienti dalla Cina e poi lo “scoppio dei due vulcani”, i focolai di Codogno e Bergamo.

Ho riavvolto il nastro più volte per dare un senso alle mie ed altrui azioni, come professionista della comunicazione e come essere umano. L’opportunità di raccontare l’esperienza a studenti universitari mi ha spinto a mettere ordine e razionalizzare un percorso in crescendo che ha rivoluzionato la vita e la routine professionale mia e del mio team. Sono stati due anni tosti, ma assolutamente eccezionali. Dove abbiamo rovesciato a terra la cassetta degli attrezzi per riempirla di nuovi strumenti ed esperienze, umanamente avvolgenti. Protagonisti sono stati centinaia di medici, infermieri, ingegneri, manager, tecnici, ricercatori, impegnati in una lotta senza quartiere, a mani nude (soprattutto all’inizio), contro un nemico indecifrabile, mutevole, pericolosissimo. Una sfida che ha accomunato il mondo intero. Noi comunicatori siamo stati lì, dal primo giorno, per far circolare le informazioni, dare voce ai nostri professionisti, raccontarne le gesta. Il commitment è stato sempre chiaro: la comunicazione dell’ospedale doveva accompagnare nella bufera una grande (e variegata) comunità di professionisti della salute impegnati a curare persone e salvare vite.

I virtuosismi comunicativi del pre-pandemia hanno lasciato spazio, specie nelle prime settimane del 2020, alla parola nuda e cruda: come il bollettino via mail del direttore sanitario, il dottor Michele Lagioia, informazioni senza fronzoli per raccontare ad una comunità in prima linea cosa era successo e che cosa si stava pianificando per il giorno dopo, virus permettendo. Trasformazione dopo trasformazione di degenze ordinarie e sale operatorie in postazioni di terapia intensiva, formazione e protezione del personale, nuovi protocolli di cura e di ricerca in uno scenario di medicina di guerra. La forza delle parole che ogni sera creava attesa, di cui il pubblico interno aveva fame. Oggi quel diario collettivo ha un nome ed è parte della storia di Humanitas.

Si chiama Lanterne rosse, di sicuro un’eredità per gli studenti di Medicina che magari lo leggeranno per capire che cosa è successo. Ricordo il mio ufficio a Rozzano trasformato in una redazione tv capace di produrre e condividere video per formare e aggiornare i colleghi impegnati in trincea: come indossare correttamente una mascherina, come vestirsi e svestirsi prima di entrare in reparto? Nulla di ciò che oggi appare scontato, lo era in quel momento, una faticosa primavera 2020 in salita e densa di incognite. Ricordo i cittadini che cantavano sui balconi per solidarietà ai camici, ma anche gli infermieri ghettizzati nei loro palazzi perché considerati dai condomini pericolosi untori.
È successo di tutto, tra cambi di scena improvvisi e saliscendi di emozioni. Per questo abbiamo cambiato più volte registro comunicativo ascoltando le voci in corsia: così è nato il canale Humanitas Voice su Spotify, diario vocale dei nostri camici accanto alle voci incoraggianti di personaggi del mondo dello sport, della cultura e dello spettacolo come Fiorello, Gerry Scotti, Valentino Rossi, solo per fare alcuni nomi.

Una scarica di adrenalina e di emozioni anche il video Dietro la maschera (in fondo all’articolo, ndr) che abbiamo realizzato nelle corsie degli ospedali Humanitas di Milano, Bergamo, Torino e Castellanza durante i mesi più bui: un video che abbiamo dedicato il Primo Maggio ai nostri pazienti e ai medici che ci hanno lasciato prendendosi cura di loro. O gli scatti del grande fotografo Maki Galimberti, ritratti dei nostri all’uscita dei reparti Covid, appesantiti da tute e maschere gravose come armature. Ogni stagione che è seguita ha meritato un racconto a sé, ogni volta partendo da zero, dai bisogni concreti dell’ospedale. Come in questi giorni, del resto. Il pragmatismo ci ha guidato, dentro e fuori le mura. Da giornalista ho riscoperto la vena della scrittura che ho riversato su Linkedin come gesto di catarsi, prepotente e spontaneo: dentro le mura osservavo fatti luminosi che necessitavano di essere raccontati con un punto di vista intimo, senza squilli o enfasi. Come la “comunicazione interrotta” tra famigliari e pazienti per motivi di sicurezza. Sostituita – se così si può dire – dalla dedizione dei professionisti in camice che sono stati al fianco dei pazienti, a volte, fino all’ultimo giorno. Alle stagioni del buio si sono alternate quelle della luce: penso al Capodanno 2021, ai primi medici e infermieri vaccinati, fieri e felici. E noi lì a raccontare, celebrare, accendere i riflettori grazie ai giornalisti alla caccia di good news. E poi i podcast per i pazienti e i cittadini vaccinandi, come medicine contro la paura.

Come molte realtà sanitarie ci siamo ritrovati nell’occhio del ciclone, chiamati ad assumere un ruolo attivo e reattivo nei confronti della Stampa nazionale ed internazionale. Come suggerito dal nostro Direttore scientifico Alberto Mantovani, abbiamo fatto nostra la regola delle 3 R: rispetto dei dati, delle competenze e responsabilità. Ogni intervista è stata guidata da questa semplice regola: si parla con numeri a supporto (non opinioni), di temi di cui i nostri professionisti sono competenti. Sapendo che ogni dichiarazione, specie in questo momento storico, su una materia in continuo divenire, ha un impatto importante sulla vita delle persone. Questo è stato il nostro antidoto all’infodemia, anzi il vaccino in cui crediamo perché ci piace chiamarlo così».
Immagine di apertura: foto Pixabay
* Le foto del servizio sono una cortese concessione dell’ufficio stampa dell’Istituto Humanitas