Milano 23 novembre 2020
Ci sono film che stupiscono da sempre e per sempre. Film che emozionano ogni generazione, sempre freschi e nuovi come la prima volta. Il pianeta azzurro di Franco Piavoli fa parte di questa rara categoria. Da quasi 40 anni, il debutto alla Mostra del Cinema di Venezia è del 1982, questa pellicola, costruita con scarti di altre pellicole, girata con infinita pazienza e pochissime lire nelle campagne di Pozzolengo, tra gli intatti colli gardesani, rappresenta una sorta di Ufo nel firmamento del cinema, e non solo italiano, come testimoniano le tante rassegne a esso dedicate da Parigi a Madrid, a New York. E che ora viene riproposta su OpenDDB, piattaforma in streaming, con la formula della donazione libera https://www.openddb.it/

Anomalo sia per scelte estetiche sia produttive, il Pianeta di Piavoli è un poema sotto forma di film, una sinfonia di immagini e suoni, un canto d’amore per la natura, il paesaggio e tutti gli esseri viventi che lo popolano. Senza mai scivolare nella retorica o nell’enfasi visiva, questo regista appartato, vero eremita della macchina da presa, racconta con incantata consapevolezza il miracolo di una forza generatrice che di continuo nasce e muore, spunta, scompare, si rinnova. I versi di Lucrezio: «Il nascere si ripete / di cosa in cosa / e la vita / a nessuno è data in proprietà / ma a tutti in uso» sono l’esergo del film e il suo manifesto programmatico.

Quella vita che pulsa anche quando non appare, tutto avvolge e accomuna in un flusso di passaggi e metamorfosi sorprendenti. Come il ghiaccio che nella prima inquadratura sembra infrangibile e invece si frange sotto la forza di un sole capace di mandarlo in mille pezzi, che si sciolgono, scivolano nell’acqua scura come cellule di un liquido amniotico, come spermatozoi guizzanti in cerca di un qualche seme da fecondare. Che la primavera sia alle porte lo annuncia la pioggia che scroscia sulle foglie, il vento che spettina le spighe verdi del grano, le gemme turgide smaniose di sbocciare, i girini impazienti di diventare ranocchi. Un risveglio festoso di creature dell’acqua e della terra, un microcosmo vibrante di prepotente energia, dove l’animale uomo compare solo dopo la prima mezzora. Entra in scena con un bacio, due bocche che si cercano, si desiderano, si uniscono. Un giovane uomo e una giovane donna fanno l’amore su un prato con la stessa gioia, spontaneità, libertà di un universo per quello sembra esser stato creato. Adamo e Eva originari e eterni, ragazzi di campagna che fanno l’amore e poi tornano al lavoro dei campi.

Enormi e inesorabili i trattori falciano l’erba che aveva fatto loro da letto, ormai è estate il raccolto deve essere fatto in fretta. Anche di notte, i fari accesi che si muovono nel buio come lucciole giganti. E quando tutto tace, a illuminare l’oscurità resta la luna di agosto. La luna di Leopardi (non citato nei titoli di coda tra i collaboratori del film insieme con Charles Darwin e Josquin Desprez). La luna della Sera del dì di festa: “Dolce e chiara è la notte e senza vento / e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / posa la luna e di lontan rivela / serena ogni montagna”.
E poi verrà l’autunno con i suoi tripudi di rossi e di gialli, e poi l’inverno, le nebbie di gelo, i bagliori di bianchi e di grigi. E poi sarà di nuovo primavera, come dice il titolo di un bellissimo film di Kim Ki-duk, un altro regista che declina la natura come una poesia. Come pure faceva Olmi, non a caso grande amico di Piavoli, come Tarkovskij che così aveva definito il Pianeta Azzurro: «Un poema, un viaggio, un concerto sulla natura, l’universo, la vita».
Da quarant’anni Piavoli ci ricorda l’unicità preziosa di questo nostro pianeta. Il successo lungo e inscalfibile del suo Pianeta si rinnova di generazione in generazione. Ai giovani di oggi, ancora più più che a quelli sventati di ieri, il compito di conservare e difendere la sua fragile, indispensabile, bellezza.
Immagine di apertura: un fotogramma di Il pianeta azzurro