Milano 28 Aprile 2022
Dopo la firma al Quirinale (novembre 2021) dell’accordo di cooperazione economica tra Italia e Francia, si sono riaccesi i riflettori sulle tante imprese la cui proprietà è condivisa dai due Paesi. Anche perché nel testo diffuso in quella occasione, accanto all’obiettivo politico (“correggere le regole di bilancio Ue dopo pandemia e guerra”) c’è anche un accenno alla volontà di “superare alcuni malintesi del passato”. In effetti, in occasione di ogni fusione si era posto puntualmente l’interrogativo, un po’ retorico, su chi avrà l’effettivo comando della nuova società frutto della fusione stessa. È accaduto, ad esempio, quando la Fiat ha “sposato” il gruppo Psa Peugeot-Citroen dando vita a Stellantis e diventando così il quarto produttore di automobili al mondo. Al gruppo Agnelli è toccata una quota azionaria leggermente superiore a quella dei francesi, ma questi ultimi hanno ottenuto come corrispettivo la guida operativa della società, affidata attualmente a Carlos Tavares, ex amministratore delegato di Psa.

Il problema non si è posto, invece, nel caso di StMicroelectronics, uno dei maggiori produttori al mondo di microchips, che fin dalla sua costituzione vede il controllo azionario esattamente diviso a metà tra azionisti italiani e francesi. La formula del controllo fifty-fifty, che tradizionalmente ha sempre avuto difficoltà a funzionare, in questo caso (indicato spesso come esempio virtuoso) regge ormai da decenni e non ha impedito che il gruppo si sviluppasse e macinasse utili. Nessun equivoco, ovviamente, quando si è trattato di normali acquisizioni di un’azienda da parte di un’altra. Come quella della Bnl, comprata dal gruppo Bnp-Paribas. Oppure il passaggio a Lactalis di ciò che era rimasto di Parmalat dopo il fallimento. D’altra parte la stessa Borsa di Milano, che nel giugno 2007 gli azionisti italiani avevano ceduto agli inglesi del London Stock Exchange, dal 2020 (anche a seguito della Brexit) è entrata a par parte del circuito Euronext, di proprietà francese, con Cassa Depositi e e Prestiti e Intesa-S.Paolo soci di minoranza.

Gli esempi di joint-venture e società comuni, comprese quelle di minori dimensioni, insomma, sono davvero numerosi. E nelle ultime settimane si sono aperti almeno due nuovi dossier. Il primo appartiene al mondo delle banche e riguarda l’ingresso del Crédit Agricole, con poco meno del 10%, nel capitale del Banco Bpm. Per il momento si è parlato di semplice collaborazione, con la valorizzazione delle possibili sinergie. Ma c’è chi ipotizza che il vero obiettivo del colosso francese sia il controllo della banca italiana (c’è un precedente: il Credito Valtellinese, comprato lo scorso anno, è stato assorbito diventando Crédit Agricole Italia a partire dallo scorso 24 aprile). Nel caso di Banco Bpm ci sarebbero tuttavia ancora molti ostacoli da superare, dall’autorizzazione di Bankitalia al parere dell’Antitrust. Senza contare che nel frattempo potrebbero arrivare rilanci da parte di altri pretendenti, anche italiani.

Il secondo dossier, anche questo ancora a livello di studio, ipotizza l’acquisto di Tod’s, la società fondata e guidata da Diego Della Valle, da parte del colosso francese del lusso Lvmh, che fa capo a Bernard Arnault. «Quando deciderò di vendere – aveva detto lo stesso presidente e maggiore azionista di Tod’s quasi un anno fa – il compratore sarà Lvmh». Nelle scorse settimane l’imprenditore marchigiano ha ribadito che lo sbocco finale non potrà essere che questo, precisando però che i tempi non sono ancora maturi. «Da consigliere di Lvmh – ha poi spiegato Della Valle, quasi a stoppare le possibili inevitabili critiche – ho assistito a molte acquisizioni in Italia, come Fendi, Bulgari e Loro Piana. Tutte queste aziende hanno avuto grandi vantaggi da un gruppo che ha rispettato e accresciuto il valore dei marchi, mantenendo le filiere produttive in Italia e mettendo a disposizione nuova forza finanziaria».