Milano 25 Maggio 2021
Sono disegni, eppure esprimono un’interiorità artistica che va oltre ogni singolo tratto e ci rimandano il ritratto di un genio, Filippo Juvarra (Messina, 1678 – Madrid, 1736). Tutto appare chiaro nell’allestimento (con gigantografie) della mostra che la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino dedica all’architetto con il titolo Filippo Juvarra regista di corti e capitali dalla Sicilia al Piemonte all’Europa, visibile per buona parte anche online (www.juvarrallanazionale.it) con la guida di alcuni dei curatori e grazie alla digitalizzazione dei documenti. La parola “regista” va oltre il quadro d’insieme che ogni architetto dovrebbe avere, e indica, in maniera specifica, le qualità visionarie del grande messinese, un artista a “tutto tondo” dentro e oltre il Barocco: non solo geniale architetto, ma anche vedutista, scenografo, interior designer e altro ancora.

La sequenza espositiva del Corpus juvarrianum, il più consistente fondo di disegni (oltre mille) di Juvarra, di proprietà della Biblioteca, esalta queste caratteristiche. Ecco quindi che, accanto ai progetti più famosi (da Palazzo Madama a Superga, da San Filippo Neri a Stupinigi, dalla reggia di Venaria al Palazzo Reale di Madrid e tanto altro) e all’incredibile (lo sarebbe ancora oggi) “drizzamento” della contrada di Porta Palazzo, con l’apertura di lunghi e possenti assi viari che hanno dato a Torino un volto urbanistico invidiato in tutto il mondo, ci sono i Penzieri, carboncini e acquarelli che, tra astrattismo e pre-impressionismo ante litteram, sono il ritratto, affidato alla “mano” dotata di qualità pittoriche, di una “mente” che non sta mai ferma, di una creatività inarrestabile. E ancora “regista” si riferisce alla sua attività di docente, cominciata all’Accademia di San Luca a Roma e poi continuata a Torino, soprattutto come maestro dei suoi allievi di bottega, seguiti in ogni particolare (ci sono i fogli degli esercizi), compresa la vita pratica del cantiere.

Non sono usati a caso i termini “mano” e “mente”. Come scrive nel suo Elogio, datato 1738, il letterato Scipione Maffei che aveva conosciuto Juvarra alla corte Sabauda, nel primo incontro tra Vittorio Amedeo di Savoia e l’architetto, avvenuto a Messina nel 1713 (il Re si era recato in Sicilia per prendere possesso del suo nuovo regno che durò fino al 1720), Juvarra si presentò a mani vuote, senza una cartella di disegni, suscitando la perplessità della Regina. Invece Vittorio Amedeo disse «che non importava, bastando che avesse portato la testa e la mano». E lo mise subito alla prova chiedendogli un progetto per un nuovo palazzo reale (con una serie di desideri), laddove già, davanti al porto di Messina, ne esisteva uno. La risposta fu immediata e straordinaria: quei disegni fanno parte della mostra e fecero decidere al Re di portare Juvarra a Torino come primo architetto. Già quell’incontro fece comprendere al monarca quale fosse il modo di Juvarra di porsi di fronte all’architettura (riassunto nel suo motto «Chi poco vede niente pensa…»), ovvero la sua capacità di vedere tutto: ciò che c’è e quello che ci potrebbe essere. Capacità che lo ha fatto “inventore” di palazzi, chiese, ville e, da urbanista visionario, di nuovi assetti cittadini.

Cominciò così la carriera (a Roma, pur allievo stimatissimo di Carlo Fontana, che lo riteneva “capace di tutto”, aveva fatto soprattutto scenografie – straordinarie, peraltro – per il Cardinale Ottoboni) del prete architetto che era nato da una famosa famiglia di argentieri messinesi, dove aveva potuto sin da bambino esercitare la “mano” e la “testa” sul disegno e sulla sua immediata applicazione. Ogni tratto di Juvarra contiene in sé già l’ipotesi approfondita di quello che poi poteva essere il progetto definitivo, legato al territorio. E anche nei paesaggi c’è sempre un’intuizione che sarebbe restrittivo chiamare urbanistica, avendo anche un profondo significato antropologico e contenendo in buona sostanza passato, presente e futuro di un luogo, di una strada o di un palazzo.

La mostra è corredata da una pubblicazione che alla concretezza scientifica aggiunge una serie di notizie (sulla base di documenti) che ci rimandano informazioni sui tratti umani di Juvarra che Maffei raccontava così: «allegro, di buona conversazione, e molto amico de’ divertimenti», nonostante abbia vissuto parecchie delusioni, specialmente a Roma. Diretto dipendente del Re, il Primo Architetto evitò sempre di frequentare la Corte, dove non era molto amato, un po’ perché il suo stipendio era più alto anche di quello del Gran Ciambellano (ma lui non aveva beni propri), un po’ perché era considerato di umili origini, né più né meno che un “povero prete senza parrocchia” (successivamente fu nominato Abate di Selve).

Così Juvarra non volle mai abitare a Corte: prima ebbe un appartamento nel convento dei padri filippini; quando poté costruirsi una propria e adeguata abitazione lo fece al limite della città. Ancora al tempo della discussione per la Palazzina di caccia di Stupinigi, il consiglio dei nobili lo fece sedere «su una sedia senza braccia, discosta dalla tavola» ed evitò di chiamarlo Cavaliere, titolo che gli aveva dato Giovanni V di Portogallo (dove l’architetto era andato nel 1719 per progettare ma anche in missione segreta per combinare il matrimonio del figlio di Vittorio Amedeo, con una strana triangolazione, quasi da spionaggio, con Roma e Londra).
Ma lui era convinto e ostinato e di ostinazione probabilmente è morto a Madrid, dove era stato chiamato per progettare il nuovo Palazzo Reale e altre residenze. L’ambasciatore sabaudo raccontò che Juvarra, non avendo il Re di Spagna adempiuto all’impegno di fornirgli una carrozza, si ostinò a passeggiare a piedi nel freddo inverno della capitale, fino a essere colpito da una broncopolmonite che nella Corte madrilena fu sottovalutata. Così morì da solo il 31 gennaio del 1736. Il progetto del Palazzo Reale fu portato a termine dai suoi allievi.
Immagine di apertura: Ingresso della mostra con la gigantografia del dipinto di Agostino Masucci Ritratto dell’architetto Filippo Juvarra (Camera di commercio, Torino)