Sassari 23 Novembre 2020
La pandemia da Covid-19 – che segna uno spartiacque nella storia del mondo contemporaneo – ha alimentato un crescente interesse per le epidemie storiche, in particolare per l’emergenza sanitaria più vicina a noi (1918-19) , passata alla storia con il nome di Spagnola. Termini come quarantena, isolamento, cordoni sanitari – misure di contenimento che facevano parte dell’esperienza delle passate generazioni fino al tramonto del Novecento – sono ricomparsi sulla scena. Usati, talora impropriamente da giornalisti, cultori di storia locale, storici improvvisati che hanno saccheggiato gli studi disponibili. La cui mole è cresciuta dopo il fondamentale lavoro, America’s Forgotten Pandemic The Influenza of 1918, pubblicato nel 1976 da Alfred W. Crosby. Lo storico americano aveva rivolto la sua attenzione all’analisi del perché quella terrificante pandemia non avesse lasciato cicatrici permanenti nella coscienza collettiva. La rimozione, a livello planetario, dalla memoria e dal vissuto dei contemporanei, può essere considerato uno dei grandi misteri del Novecento. Poche le tracce negli epistolari, nella diaristica, nella memorialistica, quasi assente nella letteratura, nell’arte. Persino gli storici militari, riservano alla Spagnola solo qualche cenno, en passant. E questo nonostante il suo ruolo nel condizionare l’andamento delle operazioni belliche nell’ultima fase della guerra.

L’attenzione verso la prima pandemia del XX secolo si è risvegliata in questi ultimi mesi, spinta dall’esigenza di approfondire le condizioni che fecero da sfondo ad uno degli eventi più letali del mondo moderno, la Spagnola. Poiché la Spagna non era tra i paesi belligeranti, i giornali non erano sottoposti a censura. Le notizie sulla misteriosa malattia poterono quindi circolare. Fu così che, con grande disappunto degli spagnoli, il loro Paese fu per sempre associato alla pandemia, che, in tre diverse ondate, in meno di due anni, attraversò il mondo come un uragano, rappresentando uno dei maggiori disastri sanitari degli ultimi secoli, superata solo per morbilità e mortalità dalla Morte Nera (la peste del Trecento, ndr). Stando alle stime più attendibili, in soli sei mesi, tra la fine di ottobre e l’aprile del 1919, colpì 500 milioni di persone (poco meno di un terzo della popolazione mondiale del tempo), uccidendone circa 50. La prima ondata fece la sua prima comparsa in un campo militare americano nella primavera del 1918. Portata in Europa dalle truppe in arrivo dagli Stati Uniti, si diffuse velocemente. In estate parve scomparire, ma in settembre ricomparve con la forza di un uragano devastante.

La malattia si manifestava bruscamente, senza segni premonitori, “con lieve catarro del naso” ed era caratterizzata “da senso di molestia alla gola, da stanchezza, da dolori vaghi a tutto il corpo”. Seguivano rapidamente la febbre in molti casi alta e preceduta da brivido o accompagnata da un forte mal di capo, l’arrossamento degli occhi, la tosse, molte volte “perdita di sangue dal naso”. Dopo alcuni giorni, quando pareva che la malattia fosse sulla via della guarigione, poteva sopraggiungere una ricaduta che per due o tre malati su 100 aveva esiti letali. Ad essere più colpiti non erano gli anziani, ma la classe di età 15-40 anni.
Ad uccidere non era l’influenza in sé, bensì le complicazioni a carico di diversi organi, in particolare i polmoni. Non esisteva profilassi: il consiglio dei medici era di sfuggire gli affollamenti, di “evitare il contagio e di praticar grande pulizia delle mani, delle cavità nasali, della bocca”. La tremenda Spagnola trovava le popolazioni in condizioni di debolezza e prostrazione, dovute ai lunghi anni di guerra. Ma trovava anche strutture sanitarie al collasso. Buona parte dei medici, degli infermieri e dei farmacisti si trovava al fronte, mancavano le medicine e persino i generi di prima necessità per i malati e i convalescenti.

Tra settembre e ottobre, si susseguirono le misure profilattiche adottate dai sindaci e dagli ufficiali sanitari, sulla base delle circolari del Ministro dell’Interno: individuazione dei focolai epidemici; isolamento, se possibile, dei malati, anche negli ospedali, dove erano proibite le visite; chiusura delle scuole, eliminazione dei contatti con i malati e con possibili infetti; riduzione al minimo di riunioni pubbliche in locali chiusi come teatri e cinematografi; disinfezione accurata e pulizia di case, uffici pubblici e chiese. I vescovi impartirono ordini severissimi ai parroci perché non trascurassero la disinfezione di banchi e confessionali. L’orario di chiusura di bettole, osterie e rivendite di generi alimentari era fissato per le ore 21, mentre era prorogato l’orario di chiusura delle farmacie. Tutte le feste patronali erano sospese. Medici e infermieri dovevano usare una mascherina. Manifesti e giornali traboccavano di consigli per evitare l’influenza: sfuggire i luoghi affollati, lavarsi le mani, non sputare, un’abitudine allora diffusissima in tutti gli strati sociali.

Da un giorno all’altro, dunque, anche aree lontane dalla zona di guerra, le popolazioni civili, furono sottoposte ad una rigida disciplina, quasi militare. Nelle farmacie la gente faceva la fila per acquistare prodotti pubblicizzati dai giornali. Il fatto è che la scienza medica brancolava nel buio: la certezza che l’influenza fosse una malattia microbica – provocata dal famoso bacillo di Pfeiffer – era venuta a cadere e il virus che molti ricercatori additavano come responsabile sfuggiva ai troppo arretrati microscopi del tempo.
Soltanto verso la metà di novembre del 1918, a guerra ormai finita, l’epidemia cominciò lentamente a declinare, anche se per la sua totale scomparsa occorrerà aspettare la fine del febbraio successivo, dopo una nuova piccola fiammata tra la fine di dicembre e il gennaio del 1919. In totale, il numero dei morti di Spagnola (circa 600mila, secondo alcune stime) in Italia si avvicinava a quello degli uomini caduti nei campi di battaglia (650mila) di quella interminabile guerra.