Monza, 27 febbraio 2025
Oggi sul “piatto” della politica ci sono i medici di medicina generale. Quelli che una volta si chiamavano medici condotti, rappresentano una professione storicamente ricca della cultura del “prendersi cura” e accompagnano i pazienti nelle vicende mediche della vita. Sono fondamentali per l’assistenza sul territorio e la loro retribuzione è regolata da un Accordo Collettivo Nazionale e da accordi regionali su base convenzionale in regime di libera professione. Ora le Regioni vogliono cambiare il loro rapporto di lavoro, facendoli diventare dipendenti del Sistema Sanitario Nazionale, come i medici ospedalieri, per avere la totale disponibilità di 38 ore settimanali.

Si legge in diversi articoli che questa riforma è necessaria come “leale collaborazione con i medici di medicina generale“, “valorizzazione del loro ruolo di medico per definirlo nella Sanità del futuro” e ancora “un beneficio per i cittadini”, ma in verità tutto questo non ha nulla a che fare con il curare i malati. Il motivo principale di questo cambiamento è la distribuzione oraria tra l’attività assistenziale nel loro ambulatorio (20 ore) e un’attività ancora tutta da definire nelle “Case di Comunità” (18 ore). Queste “Case” sono le nuove strutture finanziate con i soldi del PNRR, la cui costruzione, secondo i politici e manager della sanità, dovrebbe risolvere i problemi dell’assistenza sul territorio. Ma il mattone ingrassa il “sistema” senza risolvere i problemi dei medici che fuggono e dei pazienti che non vengono assistiti. Si tratta quindi di una riforma del lavoro dei Medici di Medicina Generale calata dall’alto perché, dopo aver pianificato la costruzione di 307 Case di Comunità nel PNRR, i politici e gli amministratori si sono accorti che manca il personale sanitario per farle funzionare. Infatti, pare sia anche richiesto ai medici un apporto attivo alla programmazione. Ad oggi si tratta ancora di discussioni senza esito né un testo ufficiale (esiste una bozza stilata dalle regioni, pare approvata da tutte, in particolare da Lazio, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia e Veneto) ma la protesta dei medici e della FIMMG (Federazione Italiana Medici di Medicina Generale) oltre a diverse azioni sindacali in tutta Italia, si sta facendo sentire.

È di questi ultimi giorni la notizia di un sondaggio fatto dalla FIMMG a più di 3000 giovani iscritti al corso di specializzazione per medici di medicina generale, chiedendo il loro parere sulla proposta di essere assunti come dipendenti dal SSN, come vorrebbe la riforma. È risultato che il 70 per cento preferisca la libera professione e addirittura il 40 per cento sia pronto a cambiare specialità, se questa riforma dovesse essere approvata.
Il sistema sanitario pubblico ha dei deficit seri di personale già nelle esistenti strutture ospedaliere, dove medici ed infermieri si licenziano per andare all’estero o addirittura per fare i gettonisti: aderiscono alle cooperative che elargiscono retribuzioni molto più alte di quelle regolate dai contratti nazionali. Questi enti sono il nuovo modus per disperdere soldi pubblici ed in questa riorganizzazione voluta dalle Regioni potrebbero anche avere un ruolo centrale proprio per reperire medici ed infermieri per le “Case di Comunità”. Il business delle cooperative e i soldi del PNRR spesi per strutture e sovrastrutture organizzative mi riportano alla memoria la “Missione Arcobaleno” di oltre un ventennio fa, quando ci fu un grande scandalo, poi insabbiato, relativo ad un’iniziativa di solidarietà dell’allora governo per portare soldi pubblici e risorse umanitarie nel Kosovo ed in Albania: fu dispersa tra mille mani senza mai arrivare a destinazione.

Si pensa alle case di comunità quando invece non ci sono le capacità per curare i pazienti. Non ci sono i medici (sempre più in fuga dal Sistema Sanitario Nazionale) e non ci sono i giovani medici, i dottorini che hanno bisogno di imparare, fare un esame obiettivo, toccare il paziente, prendersi cura di lui e fare una diagnosi. Un dottore deve imparare a parlare con la gente che sta male e che deve morire, deve saper spiegare al paziente quello che ha.
Il dottore deve visitare, non con i telefonini e le app ma mettendo un fonendoscopio sul cuore per sentire se c’è un soffio. Deve conoscere i “punti di repere” che sono le zone della superficie cutanea dove sono riconoscibili al tatto formazioni anatomiche e che servono da riferimento per localizzare un punto del corpo in maniera univoca.
Inoltre, c’è uno sgretolamento letale della comunicazione medico-paziente con una trafila informatica che governa le terapie. Ai farmacisti arrivano ricette elettroniche da scaricare, di cui i pazienti sanno poco o nulla. Ci sono delle app per comunicare con il medico di base, gestite spesso dalle segretarie. Al paziente non resta che la TV, il “medico del nuovo millennio”, che offre terapie che teoricamente fanno miracoli e chi ci guadagna è il “sistema” e le case farmaceutiche.

Attualmente la medicina non sta seguendo la strada dell’apprendimento clinico e del colloquio con il paziente e con i parenti del paziente. Non esiste comunicazione e senza comunicazione non esiste nemmeno la cura che infatti ora, sempre più spesso, viene sostituita dall’aggressione selvaggia ai danni del personale sanitario. Lavorare in un pronto soccorso è diventato pericoloso.
Lo smantellamento dei sistemi avviene per gradi. Con le ricette bianche abbiamo assistito all’annullamento di quanto il paziente conosca del suo percorso diagnostico. Con l’avvento delle “Case di Comunità” assisteremo alla trasformazione del medico di famiglia in un impiegato di programmazione aziendale e con le cooperative, che sono un trucco per riempire di organici non adeguatamente formati delle case vuote, vedremo l’inabissarsi del rapporto medico – paziente, con schiere di mercenari senza cultura.
Immagine di apertura: la prima Casa di Comunità inaugurata a Milano nel dicembre del 2021
° Ha collaborato Sabrina Sperotto