Firenze 21 Dicembre 2021

Nel 1969 Robert Neil Butler, psichiatra, psicoanalista, gerontologo, divenuto in seguito Direttore del National Institute on Aging e del National Intitutes of Health di Bethesda nel Maryland, ha creato la parola ageismo, indicando con questo termine un insieme di pregiudizi, di comportamenti discriminatori e anche di politiche che favoriscono il perpetuarsi di uno stereotipo negativo nei confronti delle persone vecchie e della vecchiaia in generale.

Robert Neil Butler (1927-2010), medico e psichiatra statunitense, è stato il primo direttore del “National Institute on Aging”, la principale agenzia Usa che si occupa di Alzheimer. Lo scatto è del 2004

Da quel momento il termine è stato adottato dai media e figura nell’Oxford English Dictionary. Tuttavia, dopo più di mezzo secolo, niente è cambiato: i pregiudizi e i comportamenti discriminatori nei confronti degli anziani sono ancora presenti soprattutto nelle società industrializzate, a più alto reddito, dove il lavoro e il guadagno “segnano” l’importanza della persona e il pensionamento ne stabilisce il degrado. Non si ammette che oltre una certa età una persona possa avere ambizioni lavorative, se non di tipo residuale o consolatorio. Ad eccezione dei grandi manager, dei banchieri, o di qualche scrittore di successo dei quali tutti ammirano il fascino evergreen, ritenuti dei “vincenti”, l’ageismo sacrifica l’anziano favorendo la produttività che è nelle mani dei giovani.
Lo stereotipo del vecchio, per definizione debole e smemorato, è tale a prescindere da ogni altra considerazione, proprio perché vecchio: quindi è inutile impegnarsi nella ricerca delle cause della sua sofferenza e di eventuali cure.

Il vecchio non è visto come una figura “residuale” solo se occupa posizioni di prestigio: manager, banchieri, intellettuali di successo (foto di Andrea Piacquadio)

Nel campo della salute mentale l’ageismo è pressoché “istituzionalizzato” e, spesso, non riconosciuto. Il noto psichiatra americano Robert W. Gibson (1924-2014) già negli anni Settanta evidenziava il pessimismo dei colleghi sulla possibilità di curare le persone anziane. Una tale posizione negativa veniva successivamente confermata da uno studio di 179 psichiatri: lavorare con pazienti anziani non è l’ideale, la prognosi è spesso sfavorevole.
Quali sono le ragioni più importanti che alimentano questo nichilismo terapeutico del personale medico verso il vecchio? Il paziente anziano alimenta le paure del terapista verso il proprio invecchiamento, evocando angosce di morte. L’emotività che si scatena porta a creare un rapporto frettoloso e superficiale che compromette spesso la capacità di giudizio. Così accade che il rapporto empatico venga evitato perché fa paura, a favore di un approccio tecnico. Ne è esempio il frequente, troppo frequente, ricorso ai test di valutazione cognitiva (una serie di domande/risposte, ad esempio sulla memoria, e di compiti da svolgere) che permettono un presa di distanza emotiva dal paziente. Come rimediare a questo? La reazione vissuta del medico nel rapporto col paziente, studiata dalla psicoanalisi e indicata come controtransfert, può essere un mezzo di conoscenza utile per sottrarsi a posizioni ageistiche preconcette, sempre che l’operatore riesca ad esserne consapevole. Bisogna, però, essere disponibili a scendere su questo terreno.

Una donna anziana con i capelli bianchi e le rughe non viene accettata; se vuole avere ancora un ruolo, deve mascherare i segni del tempo (foto di Cottonbro)

Gerontofobia è un altro termine che si riferisce ad una più rara e irragionevole paura e/o ad una costante avversità verso gli anziani. In modo pervasivo possiamo intravederla in tutto quanto viene fatto per contrastare o rallentare o almeno, nascondere, la comparsa dei segni dell’invecchiamento, una vera industria ormai; dai prodotti cosmetici alla fiorentissima chirurgia estetica di cui sono appassionati testimonial il mondo dello spettacolo e l’ambiente televisivo. Dilagano capelli tinti fra gli uomini, bisturi fra le donne e botulino per entrambi, spesso con effetti ridicoli, quando non devastanti. Ma non è solo l’ambiente televisivo: tutti noi abbiamo interiorizzato l’ageismo, visto che classifichiamo le persone in base all’età, non permettendo loro di essere individui indipendentemente da quanti anni hanno sulle spalle (esistono molti modi di invecchiare). Rimanere sempre giovani è un sogno e un desiderio che può sembrare legittimo, ma in realtà sottintende il bisogno di allontanare il pensiero della nostra finitezza. Allora chi ha paura dei vecchi? Certamente non il bambino che nella persona con i capelli bianchi vede la figura rassicurante del nonno.

Concludo con un aneddoto della mia esperienza ospedaliera quando un paziente anziano appena ricoverato in corsia per un trattamento di riabilitazione, come prima reazione, disse: «Ma io con questi vecchi non ci voglio stare!». La percezione immediata era stata quella di trovarsi tra vecchi come lui e, quindi, di non sentirsi a proprio agio!

Immagine di apertura: foto Kindel Media

Nato a Reggio Calabria, fiorentino di adozione, neuropsichiatra e geriatra. Laureato in Medicina presso l'università di Messina, dopo l’esperienza di medico condotto in Aspromonte, si è trasferito a Firenze presso l’Istituto di Gerontologia e Geriatria diretto dal professor Francesco Maria Antonini. Specializzato in Gerontologia e Geriatria, Malattie Nervose e Mentali, presso l'Ospedale I Fraticini di Firenze si è occupato del settore psicogeriatrico. È stato docente di psicogeriatria all'Università di Firenze. Ha collaborato al "Corriere della Sera" con una rubrica dedicata alla Geriatria.

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