Asti 27 Febbraio 2022
Ci sono storie a lungo taciute, impolverate dal tempo, ma non per questo destinate all’oblio. Si riaffacciano prima timide, poi via via più irruenti, anche a distanza di decenni.

Quella di Pietro Rolando è una di queste. A 99 anni, lo Stato gli ha riconosciuto la Medaglia d’onore in una cerimonia per il Giorno della Memoria alla Prefettura di Asti quale «unico superstite tra altri 18 insigniti, tra gli ultimi testimoni della deportazione nei campi di prigionia nazista». Già, perché lui era uno di quei 650mila militari italiani fatti prigionieri, spogliati delle armi e spediti nei campi di concentramento tedeschi dopo l’8 settembre del 1943 perché avevano scelto di non combattere più con i nazifascisti. E solo dal 2006, grazie ad una legge, la 296, quella prigionia dura, trascorsa per lo più ai lavori forzati per l’economia di guerra, è meritoria di riconoscimento ufficiale.
Ma Rolando ricorda bene la beffa giocatagli da un destino che, almeno, gli risparmiò il peggio. Il padre, nella speranza di preservarlo da temibili trasferimenti sui fronti caldi della guerra, al momento della sua chiamata alle armi cercò protezioni tra le conoscenze locali riuscendo (dietro la promessa di 4mila lire di quel tempo) a far sì che il figlio da alpino diventasse fante e fosse assegnato al distretto di Alessandria. «Fui invece catturato dai tedeschi pochi giorni dopo l’arrivo in caserma. I miei amici alpini mandati a Pinerolo tornarono, al contrario, tutti a casa, subito», racconta.

Pietro è nato a Loazzolo nel 1924. Vive in un bell’appartamento a Canelli, è in buona salute e, soprattutto, non ha perso la memoria della sua giovinezza negata. L’avevano arruolato nel 37/mo Reggimento fanteria; ed era da pochi giorni in caserma quando l’Italia firmò l’armistizio. Il 10, due giorni dopo, fu trasferito a Mantova, dove i nazisti concentravano i prigionieri per poi smistarli verso i luoghi di detenzione. «Ricordo un cortile immenso, centinaia di persone, soldati… Siamo stati lì fin verso il 18/19, poi ci hanno caricati su un carro ferroviario, di quelli per le merci o il bestiame, 70 tutti pigiati, con solo una finestrella per il ricambio dell’aria. Abbiamo viaggiato per settimane e settimane su quelle tradotte, prima di arrivare a destinazione. Ogni tanto, di notte, ci facevano scendere per i nostri bisogni, sempre sorvegliati a vista dalle mitraglie».
Tre gli Stalag, come erano definiti i luoghi di detenzione per i prigionieri di guerra, in cui Rolando finì in Germania: nel distretto II di Hammerstein prima, quasi nell’ex Prussia; quindi nel VI a Hemer e poi nel IX , a Zieghenhain.

«Siamo arrivati nel primo lager in condizioni fisiche molto provate, sporchi, affamati, stremati – ricorda Pietro -. Sia lì che nei campi successivi ci hanno stipati in baracche di legno, ciascuna con file di brande a tre piani; anche andare al gabinetto poteva costarti la perdita del posto, ognuno doveva arrangiarsi come poteva. È stata un’esperienza tremenda, con spostamenti allucinanti, scarsità di cibo, paura di non farcela… .Ero un ragazzo e mi sembrava tutto assurdo. I tedeschi ci usavano come apripista nei loro trasferimenti, così, in caso di attacchi, sparavano a noi per primi. Eravamo prigionieri, ma considerati traditori». Vicende che rimandano a quelle di migliaia di altri giovani partiti al servizio della patria e finiti sbandati, disarmati, arrestati.

«Pativamo il freddo, che d’inverno era sferzante e penetrante – prosegue Rolando -; non c’era riscaldamento e i nostri indumenti erano logori e inadatti. Qualcuno usciva di nascosto a recuperare qualche patata gelata che facevamo poi bollire dentro latte raccattate. Una miseria, anche se come prigionieri avevamo la possibilità di scrivere a casa e di riceverne qualche pacco». Pietro documenta la sua testimonianza tirando fuori da una piccola busta di stoffa grigia le cartoline inviate alla famiglia e le risposte ricevute: «Notizie scarne, c’era la censura, tutto veniva controllato. Ma almeno potevamo mantenere un contatto. E non tutti i tedeschi erano violenti; c’era stanchezza anche tra loro, quelli più anziani non vedevano l’ora di tornarsene a casa, erano semmai i più giovani ad essere spietati, arroganti. Del resto era stato Mussolini a scaricare i militari che non avevano più aderito al Fascismo facendoli considerare, di fatto, prigionieri civili».

Nella sua casa di Canelli Rolando vive solo, anche se i nipoti non gli fanno mancare affetto e assistenza. Nonostante l’età, e un principio di sordità, si muove agevolmente, si informa, ha il piacere di fare quattro chiacchiere. E ritorna con la memoria ai lunghi mesi al lavoro forzato: in diverse fabbriche, tra cui sei mesi in una segheria, «dove almeno c’era una stufa, ci davano un pasto. Io dovevo salire sul tetto a riparare le coperture danneggiate dalle incursioni degli alleati». Al lavoro si andava su camion scoperti. «Spesso si arrivava, e si rimaneva, fradici per la pioggia. Qualcuno si ammalava. Infatti quando siamo arrivati a lavorare alla segheria, un alpino di Ferrara, Carletto Limardi – ne ricordo ancora il nome -stava così male che lo dovettero soccorrere. Era sulla barella, dicevano che lo portavano all’ospedale. Mi allungò la sua gavetta mentre lo caricavano sull’ambulanza: “tienila tu che l’hai persa – mi disse – se torno me la ridai, sennò…”. Non tornò e io ho conservato quella gavetta. Morì tre giorni dopo».
Avete mantenuto rapporti tra ex prigionieri negli anni? «No – risponde Rolando -, non c’è mai stata l’occasione di rincontrarci, nessuno di noi ha mai preso l’iniziativa, anche se eravamo in diversi della zona. Ho avuto notizie sporadiche di qualcuno, ma nulla più». Voglia di dimenticare, anche se non si può. L’odissea per Pietro Rolando e gli altri prigionieri è stata drammatica anche con l’arrivo degli alleati: «Ad un certo punto i tedeschi se ne sono andati e noi ci siamo trovati a vagare cercando ripari di fortuna durante gli scontri a fuoco. Non sapevamo dove ci trovavamo esattamente, né dove avremmo dovuto dirigerci. Ci accampavamo in vecchi casolari, sfruttavamo le situazioni per capire se fidarci a cercare un aiuto. Qualcuno ci diede del cibo; ma la confusione era tale che i pericoli si moltiplicavano.

Finché fummo raggiunti dagli americani che, non senza difficoltà, ci identificarono e organizzarono il nostro rientro, che avvenne dopo mesi perché non c’erano più strade, ponti, ferrovie. Dal mese di marzo riuscimmo ad arrivare in Italia solo a fine agosto. E quando finalmente giunsi ad Alessandria, non c’era modo di proseguire per Loazzolo. Mi incamminai, poi trovai un passaggio su un carretto, quindi di nuovo a piedi. Arrivai a casa che era quasi mezzanotte, credo il 28 di agosto. Sotto il portico stavano ancora sfogliando il granoturco, come si usava in campagna allora. Ero malmesso, i vestiti logori, magrissimo. Stentavano a riconoscermi. Mi abbracciarono, tra lacrime di felicità».
Pietro Rolando non è di troppe parole. Ma racconta molto lo sguardo. Così come le mani che afferrano e rigirano delicatamente i ritagli di un pezzo di vita lontana, inimmaginabile e confusa, tragica e disperata. Ha fatto il contadino fino al 2002, quando si è trasferito a Canelli. Non s’è mai sposato. Oggi, a 99 anni, non fosse per le gambe deboli, andrebbe ancora al Circolo delle bocce. Dove fino al 2020, non ha mancato una partita.
Immagine di apertura: Pietro Rolando intervistato dal giornalista Giuseppe Rovera