Milano 26 Ottobre 2021
Victorious Youth è uno dei tanti nomi del noto atleta in bronzo restituito fortuitamente, in un’alba d’estate del 1964, dalle acque del medio Adriatico. Il corpo del giovane Atleta vincitore è da decenni tra le icone del J. P. Getty Museum a Malibu, dove la statua è giunta dopo vicende rocambolesche, illecite e tragicomiche – memorabile l’occultamento in un campo di cavoli –, un’aspra controversia giudiziaria, ancora in corso, tra il Museo americano e lo Stato italiano: dopo millenni, l’atleta greco continua a essere protagonista di agoni, seppure in modo involontario e ben diversi da quelli sportivi per cui allenava corpo e mente.

A vederlo risaltare nella Gallery 111 della Getty Villa, verrebbe da chiedergli se quel podio è quello che avrebbe desiderato occupare per condividere l’attimo di ebbrezza che prende nell’istante in cui viene raggiunto il traguardo. Mi piacerebbe conoscere il pensiero di un Victorious Youth d’altri tempi come lui sul vincere a ogni costo di oggi, sulla competizione eretta a sistema che non disdegna colpi bassi, che genera tensioni, anestetizza sentimenti ed emozioni, disumanizza, e non solo in America. Sono nel Dna dello spirito agonistico, da quando agone si diceva ἀγών (agón), la spinta a misurarsi con l’avversario per dimostrare di essere il migliore e il fermo obiettivo di cingere le tempie d’olivo o d’alloro, di ottenere riconoscimenti pubblici. Il pensiero dominante in un atleta era primeggiare fra i migliori e, raggiunta la vittoria, diventare un modello, acquisire quella speciale luce che rendeva lui simile ad un eroe. Come? Certo attraverso l’allenamento del corpo, condotto con costanza e determinazione per rendere il fisico vigoroso, pronto a sostenere prove di volta in volta più impegnative, e per plasmarlo secondo le leggi dell’armonia, garanzia di equilibrio fra salute del corpo e della mente. Nondimeno l’atleta doveva esercitare una serie di virtù, dal coraggio alla metis, che significa perspicacia e astuzia, al rigore: anche queste lo facevano essere un esempio da imitare. Ma non era – come non è – tutto oro quel che luccica perché la civiltà greca, al pari di ogni civiltà, non è solo luce né il migliore dei mondi possibili. Le cronache d’età classica ed ellenistica raccontano, non diversamente da quelle di oggi, di brogli, violazioni delle regole, compravendita delle vittorie, incitazioni a mettere fuori gioco l’avversario, ad ogni costo e con qualsiasi mezzo.

La corona, reale o simbolica, era una e non per tutti: questo valeva per chiunque fosse impegnato in un agone, poeti, musicisti, uomini e donne di bell’aspetto, che partecipavano a competizioni di poesia, teatro, musica, a concorsi di bellezza. Ed ecco allora l’altra faccia della vittoria, la temuta sconfitta che nei Giochi, fin dai gloriosi di Olimpia, copriva di vergogna il corpo nudo dell’atleta. Poiché il competere era affare non solo del singolo ma, si potrebbe dire, di Stato e di famiglia; tornare a casa, per gli sconfitti, aveva l’amaro sapore del disonore e il cupo suono del silenzio: nessuno in città e tra le mura domestiche parlava dei vinti; nessuna fama, nessuna gloria era per loro.
Ora, nel mondo greco, l’attitudine alla competizione aveva radici remote e diffuse al punto da penetrare e persino prevalere in quasi tutti gli ambiti del vivere, sociale e individuale. «Eccellere sempre per valore ed essere sempre superiore agli altri», raccomandava un padre (Ippoloco) a un figlio (Glauco) nell’Iliade (VI 208). Parole che, nonostante i diversi contesti, sono nel nostro tempo un mantra se non un imperativo categorico.

Oggi, in un mondo competitivo su scala globale e in cui si richiede, spesso pretende, di essere i migliori altrimenti si è “out”, come vive un giovane simili esortazioni? È tristemente noto il fenomeno degli hikikomori (fuga dalla vita sociale), sempre più diffuso e che non riguarda più solo i giovani e giovanissimi in Giappone, e che ha tra le forze scatenanti proprio le pressioni smisurate esercitate per dover raggiungere successo e obiettivi sempre più ambiziosi, tipiche dei paesi delle principali economie mondiali. La riposta a tali spinte può essere appunto un isolamento sociale, più o meno radicale, un’auto-esclusione da ogni forma di competizione, a cominciare da quella scolastica, perché ci si sente vulnerabili e non nati per vincere; oppure un’ammissione di fragilità. E qui si apre una questione non secondaria: confessare di essere vulnerabile significa implicitamente dichiarare di essere un perdente, un fallito, o non è, tanto più laddove la vulnerabilità viene addirittura manifestata con una punta di orgoglio, un segno di coraggio e un atto di ribellione contro il vincere sempre e comunque, contro quella vittoria che può minare, anche irreparabilmente, l’anima?

A questo proposito viene da pensare al noto caso, che ha tanto fatto discutere durante le recenti Olimpiadi di Tokyo, della giovane e pluripremiata ginnasta americana Simone Biles: se il prezzo per essere un Victorious Youth è troppo alto in termini di tormento psicologico ed emotivo, ben venga dire no all’agone. Anche se ammettere fragilità o incapacità non può e non d’deve diventare un alibi per non mettersi di nuovo in gioco, si può, anzi si deve rinunciare a competere in casi come quello di Simone, ma anche quando si sa per certo che la competizione, di qualunque genere sia, è “tossica”, drogata, e i partecipanti non gareggiano né alla pari né in modo corretto. Perdere in un simile concorso o gara significa essere un perdente? Rispondo con Pier Paolo Pasolini: «Io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù» (Vie Nuove, n. 42, 28 ottobre 1961).
Immagine di apertura: La statua della Vittoria, opera di Friederich Drake, in cima all’omonima colonna a Berlino (foto di Couleur)