27 Settembre 2024
Per mesi è stato l’argomento più gettonato sugli organi di stampa, in particolare su quella economica ma anche sui media generici. Il taglio dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali, richiesto a gran voce dal mondo produttivo e in qualche misura temuto dalla banche, ha animato il dibattito tra economisti e analisti, condizionando l’andamento delle Borse di tutto il mondo, forse anche per l’assenza di altri temi atti a giustificare l’andamento (di per sé altalenante) dei mercati finanziari. L’attenzione, a volte ritenuta esagerata, rivolta alle politiche monetarie delle massime istituzioni finanziarie indipendenti, si è gradualmente attenuata dopo i primi annunci ufficiali. Ma l’andamento dei tassi non riguarda soltanto le Borse. Tocca infatti, direttamente o indirettamente, anche molti altri aspetti.

La Bce (Banca centrale europea) aveva deciso una prima riduzione a giugno, procedendo poi ad un ulteriore taglio il 12 settembre. In entrambi i casi con interventi apparentemente irrilevanti (lo 0,25% ciascuno, in totale mezzo punto percentuale), scendendo dal 4 al 3,5%. Poco meno di un mese prima, in pieno agosto, la Boe (Bank of England) aveva ridotto per la prima volta dal 2020 il proprio tasso di riferimento, fissandolo al 5%, mentre la Fed (Federal Reserve, la banca centrale americana) è arrivata subito dopo, il 18 settembre, con un taglio dello 0,5%, in sostanza la stessa misura della Bce decisa però, anzichè in due tempi, in un’unica soluzione. Il che ha avuto una risonanza maggiore. Il trend discendente del costo del denaro ha visto in ogni caso una perfetta identità di vedute da parte delle tre principali banche centrali dell’Occidente, anche se le decisioni sono arrivate in tempi diversi, benché ravvicinati. Si è così conclusa la fase rialzista, iniziata più o meno due anni fa, quando si manifestò l’esigenza di arginare le spinte inflattive innescate dalla crisi energetica dovuta a vari fattori, come l’attacco russo all’Ucraina e le conseguenze economiche dell’epidemia da coronavirus.

Ora che la situazione si è in qualche modo normalizzata e il costo della vita è ritornato a livelli meno preoccupanti, ci si chiede quali siano le principali conseguenze della riduzione dei tassi. Perché le banche centrali, per definizione indipendenti dai governi dei vari Paesi, utilizzano questo strumento? L’obiettivo principale è appunto quello di tenere sotto controllo l’inflazione. In sostanza si alzano i tassi per raffreddare l’economia: si abbassano invece quando c’è l’esigenza contraria: quella cioè di rilanciare gli investimenti e in genere tutta l’attività economica. Per questo i recenti tagli sono stati accolti con favore dalle imprese, che pagheranno meno interessi sui capitali presi a prestito. Anche i titolari di mutui sulla casa, ma soltanto quelli a tasso variabile, ne trarranno beneficio. Al contrario non hanno certamente gioito i banchieri, che hanno visto diminuire i propri ricavi da intermediazione finanziaria, quelli cioè derivanti dai prestiti a privati e a aziende. Non bisogna poi dimenticare le inevitabili ricadute sul cambio delle monete, anche se in questo caso gli effetti tendono ad annullarsi a vicenda dal momento che le principali valute, vale a dire dollaro, euro e sterlina, sono espressioni di Paesi (o di aree ben precise) le cui banche centrali solitamente su questo terreno si muovono all’unisono. Abbassare i tassi, infatti, significa anche indebolire la moneta di riferimento, con ripercussioni sugli scambi internazionali e sul mercato dei cambi. In passato e in talune circostanze erano stati gli stessi governi a tifare per i tagli (e quindi per il conseguente indebolimento della valuta), ricorrendo anche a misure straordinarie. Nel 1992, per esempio, prima della nascita dell’euro, l’Italia fece ricorso alla cosiddetta “svalutazione competitiva”.

Governatore della Banca d’Italia era Carlo Azeglio Ciampi e la lira, insieme con la sterlina, era stata bersaglio di un violento attacco speculativo internazionale, dietro il quale (lo ammise lui stesso in successive interviste) c’era anche il finanziere americano di origine ungherese George Soros. L’intervento servì a ridare un po’ di ossigeno alle esportazioni italiane, anche se ovviamente penalizzò gli acquisti di materie prime, petrolio compreso, i cui prezzi erano (e sono tuttora in massima parte) espressi in dollari. Oggi una simile strategia non è più praticabile, non solo perché la lira è confluita nell’euro, ma anche perché la svalutazione competitiva è considerata poco più che un espediente, che favorisce in modo sleale la competitività delle aziende esportatrici.
Tornando alla manovra sui tassi, va poi considerato l’impatto sui debiti pubblici dei Paesi che, nel caso dell’Italia ma anche di Francia e Spagna, risultano particolarmente elevati. I vari Bot, Cct e Btp, di cui i risparmiatori italiani sono in parte detentori, offrono interessi crescenti, frutto della necessità per lo Stato di riuscire a collocare questi titoli sul mercato all’atto dell’emissione. Gran parte di essi sono sottoscritti da investitori esteri e inseriti nei portafogli di fondi d’investimento e fondi pensione proprio per il loro alto rendimento. Ebbene, una delle conseguenze del taglio dei tassi da parte della Bce è che in un futuro prossimo le remunerazioni non potranno continuare ad essere così allettanti. In sostanza, chi oggi detiene i titoli già emessi (in particolare quelli a cedola fissa) può contare su una rendita che non cambierà fino alla scadenza dei titoli.

Quelli emessi successivamente all’intervento della banca centrale, invece, risulteranno certamente meno convenienti. Certo, per il momento si parla di tassi di riferimento che scendono di poche frazioni di punto. E il mercato ha già “scontato”, come si dice in gergo, le modifiche varate. Ma gli operatori e gli analisti più attenti scommettono già sulle possibili variazioni future, che potranno arrivare addirittura entro quest’anno, per poi proseguire nel 2025. Infine, un’altra conseguenza del ribasso dei tassi d’interesse è il rilancio della corsa ai beni rifugio, a partire dall’oro, il cui prezzo, dopo aver registrato una media di circa 2.358 dollari l’oncia dal picco di aprile, nello scorso mese di agosto è salito nuovamente e dopo aver superato a fine settembre i 2.600 dollari l’oncia, ora punta a nuovi record.
Immagine di apertura: un suggestivo scatto notturno della sede della Banca Centrale Europea a Francoforte (foto di pxel_photographer)