In Italia gli aristocratici, stando all’Annuario della Nobiltà italiana, sono 78.000, per il Collegio Araldico più di centomila. Quanti una città di provincia, anche se è difficile avere un dato certo. Contano qualcosa? Apparentemente no, l’aristocrazia di casa nostra è stata spazzata via, è comunque decaduta e impoverita (a differenza di quella britannica che conserva potere politico ed economico), ma è indubbio che nella vita sociale e nella borsa mediatica il “titolo” gioca ancora al rialzo. Ne è prova la grande eco della rottura con la Corona di Harry, secondogenito di Lady D e Carlo d’Inghilterra e della moglie Megan Markle. Chi non ricorda la popolarità di Paola Ruffo di Calabria, l’aristocratica principessa che sposò alla fine degli anni Cinquanta l’allora Principe Alberto del Belgio? I rotocalchi seguivano tutte le sue mosse e le sue trasgressioni. Un’esposizione mediatica battuta in seguito soltanto da quella che circondò Lady Diana. Come sono al centro dell’attenzione oggi, in modo quasi ossessivo, i bellissimi nipoti di Ranieri III di Monaco.

Ma perché la classe nobiliare esercita ancora tanto fascino? «Questo interesse è sempre esistito – risponde il sociologo Enrico Finzi, attento osservatore dell’evoluzione dei modelli di consumo e di comunicazione – . A cavallo tra favola e mito, noi gente comune siamo sempre stati attratti da drammatiche storie d’amore e morte come quella di Lady D. In fondo queste vicende rappresentano un divertimento poco costoso che ci permette di moltiplicare le nostre esperienze di vita, donandoci forza e arricchimento». Le avventure dei “campioni” di questi casati attengono in qualche modo al mito. Sono universali come certe narrazioni religiose o come le fiabe.

«Del resto – continua Finzi – in Morfologia della fiaba, il celebre saggio di Vladimir Propp pubblicato nel 1928 a Leningrado ma uscito in Italia solo nel 1966, che ha influenzato l’antropologo Lévi-Strauss e il linguista Roland Barthes, l’autore affermava che i plot, le unità narrative, di tutte le favole del mondo sono circa una trentina e valgono per tutti i contesti umani».
Secondo lo schema di Propp, linguista e antropologo russo, questi trenta plot che lui chiamava narratemi si condensano in quattro parti: l’equilibrio iniziale (esordio); la rottura dell’equilibrio (movente o complicazione); le peripezie dell’eroe; il ristabilimento dell’equilibrio. Dopo l’esordio, in cui un membro della famiglia (l’eroe) lascia la sicurezza del suo ambiente domestico, solitamente la storia si sviluppa seguendo diligentemente gli intrecci previsti, ad esempio la sequenza dell’eroe che sconfigge il drago malefico e in cui la sorella, altrettanto malvagia, si incarica del ruolo antagonistico di inseguirlo per ucciderlo e vendicarsi. Infine, dopo diverse peripezie, l’eroe ottiene la ricompensa finale e sposa la donna che ama, salendo al trono; o ancora, l’oggetto della ricerca viene consegnato, l’incantesimo spezzato, la persona morta resuscitata, il prigioniero liberato. Molti di essi sono stati e vengono meravigliosamente interpretati ancora oggi, in maniera del tutto inconscia, dalle grandi case regnanti. Primi fra tutti i Windsor, con le loro avventure che uniscono fascino perverso, grandi sovrane unificatrici e rassicuranti, banalità e pettegolezzi. Sono le stesse avventure che seguiamo nei serial televisivi compreso l’anglo/americano The Royals, andato in onda ininterrottamente dal 2015 al 2018.

«Tuttavia alcuni regnanti – conclude Finzi – specialmente nel Nord Europa tendono a rappresentarsi come campioni della borghesia, girano in bicicletta, fanno la spesa, si confondono con noi comuni mortali». Sarà questo il modo di rispondere alle sollecitazioni del nuovo millennio? La nuova strategia per durare nel tempo? Chissà.
Ma come vediamo noi, comuni mortali, l’aristocrazia di oggi? Irraggiungibili. Spesso impersonano la fortuna di essere nati ricchi e titolati senza nessun merito particolare. Senza aver dovuto passare attraverso le forche caudine del giudizio sul valore personale o premiati per le proprie intrinseche capacità. Vengono vissuti come i rappresentanti viventi di una posizione inattaccabile da qualunque scandalo o terremoto, protetti dall’imperversare della sfortuna.

Sono tuttavia proprio queste ipotetiche caratteristiche da semidei, che attribuiamo loro, che li consacrano alla mitizzazione e ne fanno degli eroi da seguire e, potendo, da imitare. Anche Sigmund Freud ha voluto citare almeno una volta nei suoi scritti il ruolo che la nobiltà giocherebbe nella psiche umana. Ed è un ruolo positivo. Il bambino allo scopo di gestire il trauma della domanda «da dove sono nato e soprattutto da chi e in che modo», imputa la sua provenienza non tanto ai genitori biologici che vivono con lui, ma al nobile del villaggio, al proprietario del castello. Per il bambino i suoi genitori sono soltanto adottivi. Il ruolo del padre nobile, con un passato e un futuro stabiliti e riconosciuti, sposta la sua attenzione dal legame biologico tra i genitori, la cosiddetta scena primaria, e dona al soggetto una provenienza più etica e poetica.
Secondo lo storico Jonathan Dewald, dell’Università di Buffalo, autore di La nobiltà europea in età moderna, pubblicato in Italia nel 2001, i nobili in passato sono sopravvissuti ai cambiamenti liberandosi progressivamente dei loro membri più deboli. Una delle strategie di sopravvivenza particolarmente seguite è stata e, forse, continua a esserlo oggi, quella delle lamentazioni, di essere poveri e dimenticati, generazione dopo generazione, allo scopo di ricevere favori e prebende dai governanti. Vige la retorica della nostalgia. I nobili si lamentano di trovarsi con un patrimonio immobiliare ingombrante, ereditato insieme al titolo, e pochi soldi in tasca. La baronessa Patricia Rawlings, esponente del Partito Conservatore inglese, ha raccontato che vivere in una tenuta del Settecento è sempre più arduo. Soltanto grazie ad alcuni accorgimenti riesce a mantenere il controllo della proprietà e pagarne le spese. Non è da meno Gaddo della Gherardesca, che ha sottolineato più volte la fatica e le difficoltà a mantenere in buone condizioni il suo castello di Castagneto Carducci, che oggi ospita eventi e matrimoni.
In conclusione una simile sopravvivenza dell’aristocrazia rimane un fatto degno di nota e lascia anche immaginare, come afferma Dewald, che i nobili erano, e sono, sicuramente più complessi, camaleontici e, ovviamente, più interessanti di quanto risultino dalle immagini tradizionali.
Immagine di apertura: i Cancelli di Buckingam Palace, la storica residenza reale a Londra (foto di Steven E)