Milano 23 Gennaio 2021
Una storia di amore e di arte, inserita nella grande storia della “scoperta” del Giappone da parte dell’Occidente dopo la riapertura delle frontiere, nel 1854. Fino a quel momento, il Paese era rimasto un luogo segreto e diverso: per religione, per costumi, per pensiero e anche per arte. Il suo “mondo fluttuante”, senza l’uso della prospettiva, cominciò così ad influenzare gli artisti europei, affascinati dal modo, altro, e non realista, di raccontare la natura. Complice l’imperatore Meiji, che dopo il 1870 avviò un processo di modernizzazione e di scambi culturali.

Di questa idea di scambio, e ancor più di fusione – di cuori, anime, colori e acquerelli – fu ambasciatrice nella Sicilia ottocentesca dei Florio una ragazza nata a Tokyo nel 1861, Tayo Kiyohara, detta O’Tama, ovvero “sfera di cristallo lucente”. Figlia del cerimoniere di un tempio buddista, è stata ricordata lo scorso anno in Italia con due mostre importanti: O’Tama. Migrazione di stili, organizzata dalla Fondazione Federico II nel Palazzo Reale di Palermo, e Progetto Oriente, al Mudec di Milano, dove un’intera sezione è stata dedicata alla sua vicenda siciliana. Come è potuto accadere che a ventun anni questa giovane, non sposata, abbia seguito a Palermo il suo maestro e compagno, lo scultore Vincenzo Ragusa, di vent’anni più grande di lei? La storia parte da lontano. Ragusa (1841 – 1927), artista di valore, irrequieto ed estroso, si era trasferito a Milano per cercare fortuna. Lì, nel 1875, partecipò ad un concorso dell’Accademia di Brera, bandito per individuare tre docenti italiani per la scuola d’arte di Tokyo. Furono scelti Antonio Fontanesi per la pittura, Gian Vincenzo Cappelletti per l’architettura e Ragusa per la scultura. Un’esperienza che durò fino al 1882. Intanto O’Tama già a 11 anni aveva cominciato a studiare la pittura tradizionale dell’Ukiyo-e, dimostrando grande talento. Fra aneddotica e verità si racconta che un giorno del 1878 Ragusa a Tokyo, mentre faceva una passeggiata a cavallo, fu colpito dalla bellezza di una ragazza che dipingeva all’aperto. Era la diciassettenne O’Tama e galeotta fu la pittura: Vincenzo si avvicinò con la scusa di mostrarle un suo disegno.

Ragusa, innamorato, cercò di insegnare alla ragazza la tecnica della pittura occidentale, troppo realista, però, per essere subito apprezzata da lei. I due poi raccontarono che lo scultore riempì il giardino di casa Kiyohara di piante e fiori di ogni genere, di cigni, anatre e pesci d’acqua dolce, tutti soggetti ideali per portare la giovane ad un’evoluzione del suo stile che a poco a poco divenne una specie di sincretismo artistico di Oriente e Occidente, attuato in pieno nella cosiddetta “collezione dipinta”, in cui O’Tama disegnò con precisione fotografica, eppure ricca di sentimenti, tutti gli oggetti – oltre 4mila – che con amore anche antropologico, Ragusa stava raccogliendo. Non solo, O’Tama fu anche la prima donna nipponica a posare per un occidentale. Quando Ragusa decise di fondare il Museo-Scuola giapponese a Palermo, fu naturale per O’Tama seguirlo. Il padre si convinse perché con loro partirono anche la sorella maggiore Chiyo, ricamatrice, e il cognato Einosuke, maestro di lacche. Era il 1882.

La scuola subì alti e bassi e lo scultore dovette rinunciare alla collaborazione di Chiyo e di suo marito, e più tardi fu costretto a vendere la sua collezione giapponese al Museo Pigorini di Roma, dove si trova tuttora negli scantinati, nonostante sia la più importante d’Italia. Ma la sua eredità continua nel Liceo artistico Vincenzo Ragusa e O’Tama Kiyohara, che è anche un museo perché custodisce i 46 acquarelli restaurati (a cura di Gloria Bonanno) in occasione della mostra palermitana. Essi suggeriscono, come scrive Antonio Giannusa, che «l’opera di O’Tama a Tokyo non era solo puro esercizio tecnico ma aveva un ruolo fondamentale per poter trasferire, in sinergia con il progetto di Vincenzo, molti aspetti della cultura giapponese». La vita di O’Tama, nei 51 anni trascorsi a Palermo, è un incredibile romanzo e tale divenne davvero quando nel 1927 due quotidiani giapponesi la raccontarono a puntate. Nel 1889 sposò Ragusa con rito cattolico dopo essere stata battezzata con il nome di Eleonora.

Senza perdere il suo retroterra culturale, s’inserì nella società palermitana (sua madrina fu la principessa Rosa Mastrogiovanni Tasca) come donna che lavora e che produce. Insegnò pittura a tante figlie di buona famiglia e, ricorda la storica dell’arte Maria Antonietta Spadaro, tra gli ideatori della mostra: «fu un’artista eclettica a tutto campo: si espresse con la stessa abilità in tecniche quali olio su tela, acquerello e pastello; rimangono anche suoi delicati disegni a matita e persino dipinti parietali (oggi ammirabili in due ville di Palermo, ndr); si dedicò, oltre che alla pittura da cavalletto, anche all’arte applicata».

O’Tama non era solo artista: ebbe un ruolo importante nel 1901 nell’organizzazione dell’Esposizione nazionale, per la prima volta in Sicilia; nel 1888 fu in prima linea con il marito per dare soccorso durante l’epidemia di colera e nel 1908 accorse a Messina (mirabili tre suoi acquerelli, testimonianza delle rovine) e ospitò alcuni terremotati rimasti senza casa. Quando nel 1927 morì Ragusa, era talmente integrata che non pensò di lasciare Palermo. Ma, si sa, le vite-romanzo sono ricche di colpi di scena. Diventata nel frattempo famosissima in Giappone dopo la pubblicazione della sua biografia, la famiglia d’origine decise che doveva tornare in patria. A questo scopo mandò a Palermo nel 1931 la pronipote Hetsue, di appena 17 anni, che non dichiarò subito la sua “missione”. La zia aveva capito e fece di tutto per farla innamorare della Sicilia. Forse ci riuscì, ma Hetsue non poteva permettersi un fallimento del suo compito (inaccettabile per una giapponese) e arrivò a minacciare il suicidio se O’Tama non fosse ripartita con lei. Cosa che avvenne nel 1933. A Tokyo fu circondata da affetto e stima fino alla morte, nel 1939.

Fine nella storia? No, come accade nelle fiction c’è il capitolo “molti anni dopo”. La pittrice aveva disposto che le sue ceneri fossero divise fra il tempio paterno e la tomba del marito a Palermo. Le ceneri sono state portate in Sicilia solo nel 1985, proprio da Hetsue, ormai anziana. Adesso sulla sepoltura si legge: “Le spoglie di O’Tama Kiyohara / venute dal lontano Giappone / si sono ricongiunte a quelle dell’amato sposo / Palermo maggio 1985”.
Immagine di apertura: O’Tama Kiyohara, scultura in terracotta di Vincenzo Ragusa, 1883, Galleria di Arte Moderna (GAM), Palermo