Ratisbona 21 Dicembre 2024

I popoli nomadi sono presenti in tutto il mondo e malgrado una forte presenza nell’immaginario collettivo, sono sostanzialmente sconosciuti. Non fanno eccezione i Traveller Irlandesi, o Pavee. Sebbene siano anche noti come Gypsies (l’equivalente dell’italiano Gitani) di tutte le popolazioni nomadi d’Europa sono davvero le più strane: non hanno alcuna affinità con i Rom o con i ceppi etnici continentali, sono irlandesi al cento per cento, con i capelli rossi, le lentiggini e gli occhi chiari. Fino a qualche anno fa, i loro carri a botte trainati da cavalli erano un elemento del paesaggio, insieme alle brughiere e ai muri a secco.

I Traveller davanti a una delle loro roulottes (Fonte: “Appleby” di Mattia Zoppellaro edito da Contrasto)

Ora, come tutti gli altri zingari del mondo, si muovono su scalcinate automobili e roulottes. Nella Repubblica d’Irlanda se ne contano 31mila circa, nell’Irlanda del Nord 4mila, ma esistono piccole comunità anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Principale attività: il commercio dei cavalli.  La separazione dagli stanziali – rivelano analisi genetiche – risalirebbe alla metà del Seicento e sarebbe dovuta al nomadismo commerciale. Nuclei familiari lasciavano il luogo di origine in cerca di occupazione, lavorando come braccianti a giornata nelle campagne o come artigiani e maniscalchi itineranti. Uno stile di vita che ha contribuito alla conservazione e alla diffusione della vasta tradizione irlandese di canti, racconti e musica.

Una donna Pavee (o traveller) con la sua bambina negli anni Trenta del secolo scorso. La condizione di questa gente era di grande miseria (foto di Willem van de Poll)

Nella misteriosa lingua nota come Gammon o Cant, un misto di gaelico e di Hiberno-English, e senza mai scrivere una sola riga, gli Irish Traveller hanno tramandato centinaia di bellissime storie, di favole e di leggende, di antiche canzoni celtiche che solo grazie a loro sono arrivate fino a noi. Da poco tempo cominciano ad essere catalogate e custodite nel Dipartimento del Folklore irlandese dell’University College di Dublino. La cultura dei Traveller si basa su un forte senso di famiglia e comunità, caratterizzata da mutuo sostegno e resilienza di fronte alla discriminazione. Lo Stato irlandese nel 2017 ha riconosciuto loro lo status di etnia, ponendo un freno alle politiche di assimilazione forzata alla popolazione stanziale.

Molti Irish Traveller hanno fatto carriera nel campo della musica e suonano (i loro strumenti sono il violino, l’organetto, il mandolino, il flauto e la cornamusa) nei locali folk di Dublino, di Londra e degli Stati Uniti. Tanto che alcune star della musica si sono ispirate a loro. Bob Dylan, ad esempio, ha ripreso i semplici accordi di una canzone irredentista cara anche ai gitani, The Patriot Game, per una delle sue prime composizioni: With God On Our Side.

Il Pavee Folk Group, in uno scatto del 1966 (foto di Alen Macweeny)

Simon Doyle è uno dei più grandi suonatori di cornamusa viventi, un musicista itinerante e orgoglioso membro della comunità Traveller. La musica, per un traveller, porta con sé l’anima di un popolo. «La musica è dentro di noi, è come trasmettiamo le nostre storie, i nostri sentimenti. È come respirare; non riuscirei a immaginare la vita senza di lei» dice. Il viaggio musicale di Simon è iniziato prima ancora che nascesse, sua madre era una cantante e suo padre suonava il flauto irlandese. «Ho cominciato con il flauto quando avevo sette anni – ricorda -.Mi ha insegnato mio padre. Lui canticchiava le melodie e io lo seguivo. A 18 anni, ho iniziato con la cornamusa. È stato allora che ho finalmente trovato la mia voce».

Il rapporto di Simon con lo strumento è simbiotico. «Le cornamuse fanno parte di te – spiega -. Non stai solo suonando; stai sentendo, incarnando la musica. È libertà. È tradizione. È casa». La sua vita, divisa tra estati passate on the road e inverni più sedentari, ha plasmato la sua musica e la sua visione del mondo.
Lo stile di vita nomade è costantemente minato e disprezzato. La sostanziale libertà da imposizioni e vincoli è qualcosa che si stenta a comprendere e si tende sempre a denigrare. Lo stesso Simon non si tira indietro nel discutere delle sfide che la sua comunità deve affrontare. «Siamo stati sempre combattuti dai governi, condannati dalla società, lo siamo tutt’oggi» aggiunge.

Simon Doyle con la sua cornamusa. E’ nato a Manchester da genitori irlandesi nel 1972

Doyle si rammarica che anche in ambito musicale ci siano molte persone che disapprovano e deridono la tradizione: «Il mondo della musica irlandese può essere duro a volte; alcune persone sostengono che il loro modo di fare musica sia l’unico e cercano sempre di darci del filo da torcere». Spiega anche quanto sia difficile ottenere ingaggi: «Continua a succedere che i festival ci ignorino o ci snobbino solo perché siamo musicisti nomadi. È triste, davvero». Per Simon, fare musica significa prima di tutto comunità. «Nessuno è un solista. Fai sempre parte di qualcosa di più grande: la tua famiglia, la tua comunità, la tua tradizione» prosegue. Anche per questo motivo, chiede più collaborazione tra musicisti nomadi e stanziali: «C’è il pregiudizio, certo. Ma la musica può liberarcene. Dobbiamo suonare insieme più spesso, imparare gli uni dagli altri. Tutti, stanziali e nomadi, abbiamo pregi e difetti».

Due ragazze traveller davanti ai loro tipici carri (Fonte: “Appleby” di Mattia Zoppellaro edito da Contrasto)

Nonostante le avversità, Simon è molto ottimista riguardo al futuro della musica traveller: «I giovani la stanno mantenendo viva; innumerevoli pezzi antichi e senza nome sono stati tramandati oralmente di generazione in generazione. È un dono, Le nostre melodie sono diverse, speciali. Non le troverai sui libri».
È proprio il loro stile di vita, secondo Doyle, a conferire alla musica dei nomadi la sua unicità. «Chi è stanziale, in genere, si concentra di più sulle note, tutto va messo su carta e guai a sgarrare. Per noi, la musica è più libera, viene dritta dal cuore. Quando stai bene, suoni in modo vivace, se sei giù di morale, la musica risulterà malinconica. Non può essere altrimenti è quello che hai dentro che ti trasporta». È in questa emotività cruda, Simon ne è convinto, che risiede il potere della musica dei nomadi: «È più spinta, più intensa. Ti prende, che tu stia suonando o ascoltando. È per questo che arriva dritta alle persone e resta dentro di loro».

Una donna Pavee con i figli (Fonte: “Appleby” di Mattia Zoppellaro edito da Contrasto)

Quando si parla di viaggiare per suonare in posti nuovi, si illumina: «Negli anni, la mia famiglia e io siamo stati invitati un po´dappertutto, pub, festival, ovunque le persone vogliano ascoltarci. C’è qualcosa di speciale nel condividere questa musica. Lo puoi vedere sui volti della gente; li commuove».

Immagine di apertura: una ragazzina Pavee seduta su uno dei tipici carri colorati della sua gente (fonte: Appleby di Mattia Zoppellaro, edito da Contrasto)

Nato a Genova, ha frequentato la Scuola Germanica. Ha conseguito la certificazione CELTA, che abilita all’insegnamento dell’inglese, lavorando poi come docente presso l’associazione Italo-Britannica di Genova. Nell’autunno del 2022 è partito alla volta di Ratisbona dove attualmente studia Filologia ed è docente di italiano presso l’università popolare. Dal 2016 si dedica allo studio delle cornamuse del centro Francia e dal 2017 fa parte della formazione della Piccola Banda di Cornamuse, un ensemble polifonico sotto la direzione artistica di Gabriele Coltri, con cui ha suonato in vari concerti e ha inciso un disco di noëls.

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