Elisabetta Maiorano è una cinquantenne di Napoli. Piena di rimpianti e dalla vita disillusa. Lavora come insegnante di matematica al carcere minorile di Nisida. Tutti i giorni si confronta con questo luogo estremamente difficile. I rapporti con gli agenti della polizia penitenziaria (che nelle carceri minorili sono in borghese), che non la guardano mai in viso così come fanno i suoi allievi, tutti provenienti da situazioni ambientali criminali e segnate dal disagio. E poi c’è la figura del direttore, sorta di bonario padre padrone che tutto conosce di quel luogo di sofferenza fisica e morale. Elisabetta è sola, vedova. Si è sposata a cinquant’anni ma il matrimonio non è stato felice fino alla morte del marito avvenuta per un infarto pochi anni dopo. Da allora si è buttata nel lavoro che non le piace, ma che si trasfigura come una panacea per il suo dolore. La osserviamo nelle minime, pur se importanti, attività della sua vita quotidiana. Il rimpianto di una bellezza che ormai sfiorisce, i problemi di peso, i pianti solitari nella sua abitazione e poi le grandi passeggiate per Napoli, quasi a riappropriarsi di una vita alla quale soltanto i paesaggi della grande metropoli meridionale possono attribuire un senso di appartenza a qualcosa di bello. E poi appare Almarina. Ragazza detenuta, di origini rumene, violentata dal padre nella sua tenera giovinezza, dallo spirito solitario e triste, arrivata in Italia caricata su una nave col fratellino dalla nonna per salvarla dal padre orco e miracolosamente giunta alla salvezza. Capitata a Nisida per qualche storia criminale di quelle di cui quel luogo tracima.

Un giorno Elisabetta le tocca un braccio e sente un nodulo duro, osseo, testimonianza delle violenze e delle botte del padre e a Elisabetta è come se in quel momento fugace si presentassero tutti gli anni di sofferenza della giovane rumena. Almarina è sveglia, solitaria, dotata di una intelligenza che supera quella dei altri ragazzi detenuti. Addirittura, nei tre giorni delle feste natalizie, Elisabetta riesce a farsela affidare dal magistrato di sorveglianza con un permesso speciale. E sono tre giorni bellissimi in cui Elisabetta è come una madre che sta riconoscendo lentamente una figlia che non ha mai avuto e Almarina trova la figura alternativa ad una madre assente e complice delle violenze orribili che ha subito. Alla fine dei tre giorni, tutto riprende come prima. Elisabetta ritorna al solito lavoro e la ragazza in cella. Ci saranno progetti per le due donne. Ce ne devono essere per forza per Elisabetta che chiede che Almarina le venga affidata. Ma un giorno, entrando a Nisida, scopre che la ragazza non c’è più. Le giravolte dei faldoni della giustizia l’hanno trasferita in un altro istituto.
Valeria Parrella scrive questo bellissimo libro, pubblicato da Einaudi (arrivato terzo all’ultimo Premio Strega), con uno stile al contempo barocco e contemporaneo. L’io narrante in prima persona è come se richiudesse in se stesso tutte le voci, le imprecazioni, il dolore di Nisida, di Napoli e del mondo intero.
Libro breve ma intensissimo, dove le emozioni di una donna sono parte fondamentale della storia. La Napoli della Parrella si attorciglia attorno al carcere minorile ed entrambi divengono il paradigma della nostra società.
Negli Anni Ottanta Edoardo Bennato cantava: «Coi suoi giardini e il porto naturale/ Con l’Italsider alle spalle che la sta a guardare/ Nisida sembra un’isola inventata/ Ma mio padre mi assicura che c’è sempre stata!…».
Immagine di apertura: l’isola di Nisida, una delle isole Flegree, parte del quartiere di Bagnoli a Napoli, dove ha sede il carcere minorile. Lì è ambientata la vicenda di Almarina, protagonista dell’ultimo libro di Valeria Parrella (foto di Enzo Abramo)