Cremona 27 Marzo 2023
La vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico condannato in via definitiva all’ergastolo, che dati i suoi contatti con una frangia anarchico-insurrezionalista, si è deciso di isolare al 41bis è stata al centro di una grande attenzione mediatica in questi ultimi mesi.
Nessuno si sarebbe ricordato, né, tantomeno preoccupato di lui, se Cospito non avesse iniziato un risoluto sciopero della fame, che, non ottenendo l’abolizione tout court del 41bis da lui richiesta, lo sta portando alla morte. Come spesso accade, casi personali divengono oggetto di dibattiti politici e di vere e proprie tribune mediatiche. C’è chi sostiene che il 41bis (voluto da Giovanni Falcone, come strumento di contrasto alle mafie) vada abolito per tutti; chi solo per Cospito; altri temono che morendo, l’anarchico, da alcuni visto come eroe, possa scatenare rivolte di piazza. Il suo suicidio per inedia, dunque, dovrebbe essere fermato in qualche modo. Sono stati interpellati giuristi e costituzionalisti, medici, psicologi, moralisti e religiosi, ma i dubbi restano.

Vediamo di fare un po’ di chiarezza. Il suo rifiuto consapevole è garantito dalla Costituzione, ma la sua parabola fisica porta inevitabilmente a quel campo incerto ed altamente discusso che riguarda la fine della vita, l’autonomia, le scelte di come e quando morire. Argomenti che, prima di muovere il diritto, concernono la riflessione etica. Non a caso il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha rivolto, in proposito, alcuni quesiti al Comitato Nazionale di Bioetica (CNB), primo fra tutti quello relativo alla possibile esistenza, in regime di detenzione, di limiti etici alla applicazione della legge 219/2017 (che afferma la libertà di rifiutare interventi sanitari e che garantisce il rispetto delle Disposizioni Anticipate di Trattamento, le cosiddette DAT, in sostanza il “testamento biologico”).

Il quesito posto nella sua formulazione, lascia già trasparire la tesi del Ministro, ovvero che un detenuto in sciopero della fame non avrebbe il diritto di avvalersi di quella legge, dal momento che la rinuncia al cibo, in regime carcerario, sarebbe una condotta auto-aggressiva “subordinata al conseguimento di finalità estranee alla situazione clinica” e pertanto non libera. In sostanza, un lasciarsi morire non accettabile da parte della istituzione che lo ha in affido. Tuttavia, lascia perplessi la risposta, di carattere generale, non sul caso specifico (come costume del Comitato Nazionale di Bioetica), sottoscritta dalla maggioranza dei suoi membri, che ha fatto proprie in toto le tesi del Ministro Nordio. Pur riconoscendo il dovere di rispettare il diritto costituzionale del detenuto di rifiutare cibi e bevande, nel momento del massimo aggravamento, quando dovesse sopraggiungere uno stato di perdita della coscienza, le eventuali Disposizioni Anticipate di Trattamento si trasformerebbero “da strumento per l’esercizio della libertà di cura, a strumento di pressione”. Il medico sarebbe dunque legittimato a non farle proprie in quanto indebitamente condizionate e, dunque, «palesemente incongrue».

Il detenuto, pertanto, in base a questo parere espresso dal Comitato potrà essere sottoposto all’alimentazione artificiale e rianimato, ponendo le fondamenta di uno scenario inquietante: una volta uscito dal coma potrebbe riprendere un nuovo sciopero della fame, raggiungere un nuovo stato di coma e una nuova alimentazione artificiale e via così, in un circolo vizioso insensato. Fortunatamente, provida natura, con altissima probabilità la nutrizione artificiale non sarebbe efficace nel ricondurlo alla vita, ma soltanto a provocare uno stato di inutile spregio della dignità di un morente, sia pure carcerato. La tesi implicita è che Il fine delle sue decisioni è cattivo e quindi non merita che le sue volontà siano rispettate. Tutto in nome dell’Etica. Bisogna ricordare che una componente minoritaria del Comitato ha, invece, affermato che anche in questo caso la nutrizione e l’idratazione artificiali possono essere rifiutate visto che il diritto di vivere tutte le fasi della propria esistenza senza subire trattamenti sanitari contro la propria volontà costituisce un principio costituzionale fondamentale del nostro ordinamento.

Ma come è nato il Comitato Nazionale di Bioetica e quali poteri ha? Istituito nel 1990, e rinnovato ogni quattro anni, è l’organo consultivo del Consiglio dei Ministri (che ne nomina il Presidente e il Vicepresidente), sui problemi di natura bioetica che emergono dai progressi delle scienze biomediche, con l’obiettivo di tutelare i diritti fondamentali e la dignità delle persone ed evitare possibili abusi e discriminazioni. Il Comitato esprime le proprie indicazioni, anche ai fini della predisposizione di atti legislativi, mediante documenti che vengono pubblicati non appena approvati. Questi pareri hanno riguardato finora un ampio ventaglio di argomenti, dall’ingegneria genetica, alle scelte di fine vita (suicidio assistito, Disposizioni Anticipate di Trattamento, eutanasia) alla sperimentazione clinica, alla tutela dell’uomo e dell’ambiente. La composizione del Comitato che è stato rinnovato nel dicembre dello scorso anno, è caratterizzata dalla interdisciplinarità delle competenze e dalla pluralità di teorie etiche; i suoi membri provengono da diverse aree scientifiche e filosofiche, politiche e religiose.
Da molti pareri riguardanti la fine vita pubblicati negli ultimi anni emerge chiaramente una differenza sostanziale tra le posizioni etiche all’interno, che si può rubricare come orientata verso un ethos conservatore di matrice cattolica (la maggioranza) ed uno liberale, di matrice laica. I pareri pertanto sono ben difficilmente unanimi, ma vengono presentati secondo l’approvazione ottenuta dalle varie componenti. Come è successo in questo ultimo caso. Con la presa di posizione sul caso Cospito si rischia che la legge 219 venga vanificata, rendendo inapplicabile il principio della libertà di scelta dell’individuo sulla fine della propria esistenza, compreso il rifiuto dei trattamenti. Non si rischia una deriva autoritaria?
Immagine di apertura: l’interno del carcere di Opera, a Milano dove è stato detenuto Alfredo Cospito, ora all’ospedale San Paolo di Milano (foto di Clara Vannucci)