Milano 23 Febbraio 2021

Il Nazismo c’è chi lo ha combattuto con le armi e chi con la silenziosa solidarietà con le vittime. Anche a costo della propria vita. Uno di questi è stato Géza Kertész. Era un ragioniere ungherese che al diploma aveva preferito il pallone: prima apprezzato calciatore in patria, poi adorato allenatore che ha insegnato il calcio in Italia per quasi vent’anni. Sotto il Fascismo senza essere fascista. E che, nella guerra malvagia scatenata da Hitler, è divenuto uno di quegli umili eroi nascosti che hanno scelto «di concentrare la propria azione più sulle persone da proteggere che sulle cose da distruggere o sabotare»; un “Giusto tra le nazioni” che salvò molti ebrei dal genocidio nazista. E a Géza Kertész, “lo Schindler del calcio”, ha dedicato un libro, Niente è stato vano, il giornalista del Corriere della Sera Claudio Colombo (Meravigli edizioni).

La copertina del libro, edito da Meravigli, che il giornalista Claudio Colombo ha dedicato alla vicenda del calciatore Géza Kertész

Scorrevole e leggero nella scrittura quanto inquietante e coinvolgente nel contenuto, il libro inizia dalla fine, dalle ultime ore prima dell’esecuzione. Quando «gli occhi dell’uomo cercan morendo il sole e l’ultimo respiro mandano i petti alla fuggente luce». Stanno per arrivare: tra poco sentirà armeggiare sul chiavistello della porta di ferro, e qualcuno che parla in tedesco lo prenderà per un braccio trascinandolo via. Géza sente il cuore battere forte, ma non prova paura, semmai un senso di sollievo – questo sì, grande e spaventoso – dopo giorni di interrogatori e torture. Ha dolori dappertutto, ha freddo e fame. È un uomo di cinquant’anni, alto, dinoccolato, viso lungo e malinconico, occhi scuri e profondi, ancora elegante, nonostante tutto – scrive Claudio Colombo -. Si guarda le gambe lunghe e smagrite: ha perso molti chili, e pensare che sono passate poche settimane da quando i soldati in uniforme nera hanno fatto irruzione in casa sua.

Siamo nel 1945, martedì 6 febbraio. Géza sta per essere fucilato con quattro suoi compagni. I russi sono alle porte e stanno per liberare la città. Géza si trova nei sotterranei del castello sulla collina di Buda (Budapest) dalla domenica 6 dicembre 1944, quando per la spiata di un infame è stato strappato alla moglie Rosa e ai figli Kate e Geza. Lui e i suoi compagni fanno parte di una formazione clandestina chiamata Dallam (Melodia in italiano). Hanno salvato decine di ebrei e partigiani dalle persecuzioni, nascondendoli in case private, o in monasteri, oppure facendoli fuggire con documenti e lasciapassare falsi. Géza appartiene a quegli “umani” che hanno rifiutato «l’indifferenza e il silenzio colpevole», come lo ha definito Liliana Segre, alludendo a chi si è voltato dall’altra parte in una delle epoche più buie della Storia. In quei due mesi di prigionia, Géza è stato interrogato e torturato dalla Gestapo e dagli sgherri delle Croci Frecciate, il partito fiancheggiatore del nazismo che detiene il potere in Ungheria.

La squadra del Catania nella stagione 1933-34. Géza, che ne fu l’allenatore, è il primo a destra in piedi

Dalla sua terra, Géza se ne era andato nel 1925, a 31 anni. Era nato, infatti, a Budapest il 21 novembre 1894. Figlio di una cuoca, –  ricostruisce Claudio Colombo – era rimasto presto orfano. Vissuto a casa di una zia, il giovane aveva studiato all’Istituto statale di ragioneria dove si era diplomato con profitto. Non aveva grilli per la testa, fatta eccezione per la mania del calcio. A diciassette anni era stato tesserato dal Budapesti Torna Club, una delle società più antiche d’Ungheria e aveva esordito anche in Nazionale. Poi un giorno nel 1925, con la moglie Rosa e la primogenita Caterina, attratto dall’Italia, allora Mecca del calcio, approda a La Spezia in qualità di allenatore e giocatore. Da lì è tutto un girovagare: Carrara, Catanzaro, Catania, Taranto, Roma, Bergamo, Salerno, ancora Catania. Nel 1943 la situazione in Italia è invivibile, la guerra si fa sentire, le manifestazioni sportive sono limitate e a rischio.

Kértész a Catania con la moglie Rosa nei primi anni Trenta

Torna a Budapest, ha una nuova casa, vicino al Danubio, a due passi dal quartiere ebraico, «con la sinagoga più grande d’Europa, ci si può stare in 3mila…. In Ungheria gli ebrei sono 700mila, solo a Budapest ce ne sono 230 mila». Quegli ebrei che Géza prende ad aiutare assieme ad altri calciatori “complici” del gruppo segreto Dallam. Grazie alla conoscenza del tedesco e ad una divisa dell’esercito nazista, riesce in imprese impossibili mettendo in salvo tanti sconosciuti destinati allo sterminio. Fino a quel maledetto 6 febbraio 1945, quando nel cortile del castello dà l’addio al mondo, senza sospiri di rimpianto alla luce che l’abbandona, cosciente che «nulla è stato vano». Per una beffa del destino, i russi entreranno in città una settimana dopo. Le tracce di Géza, però, si persero. Il suo cadavere e quello dei compagni di resistenza furono scoperti soltanto un anno dopo. Lentamente il mondo si accorse che le sue azioni e la fine da eroe erano degne di posizionarlo nel novero dei “Giusti”.

Rastrellamenti di ebrei a Budapest nella primavera del 1944

«Avevo sentito quel nome da mio padre, ma non avevo idea di quale fosse stata, in seguito, la sua storia», ha dichiarato anni fa Piero Lorenzelli di La Spezia, Presidente dell’Unione Nazionale Veterani dello Sport. Catania, nel 2019, gli ha dedicato una via, una stele e una targa commemorativa; un regista e attore, Antonio Carnevale, ha scritto su di lui un’opera teatrale; il Comune di Bergamo gli ha intitolato un campo di calcio alla presenza della nipote Sandra Kertész (era stato allenatore dell’Atalanta). E Claudio Colombo, a questo martire cancellato dal regime comunista ungherese perché “nazionalista”, ha donato un’opera meritoria contro l’oblio.
Il libro dei deportati (Mursia) ricorda che devono essere tramandate le voci dei testimoni dello sterminio nazista ancora in vita; quelle che «il procedere inesorabile delle generazioni sta riducendo di numero in modo da renderle inattaccabili di fronte agli assassini della memoria». Lo stesso deve valere per chi, calciatore e allenatore di successo, marito, padre e patriota esemplare, ha rinunciato a vivere per far vivere tanti altri.

 

Immagine di apertura: la sinagoga di Budapest, costruita tra il 1854 e il 1859, la più grande d’Europa. Fu gravemente danneggiata durante il Secondo Conflitto Mondiale (foto di Arvid Olson)

Le foto del servizio sono una gentile concessione dell’editore Meravigli

Nato e cresciuto in Sardegna, milanese di adozione, giornalista professionista dal 1973, alla sua carriera manca solo l’esperienza televisiva. Per il resto non si è risparmiato nulla: giornale del pomeriggio (La Notte), quotidiano popolare (l’Occhio), mensile di salute (Salve), settimanale familiare (Oggi), una radio privata per divertimento (Ambrosiana) e quindi 20 anni di “Corriere della Sera”, dove si è occupato di attualità nazionale e internazionale. Ha avuto anche un’esperienza di (mini) direttore per quasi due anni al Corriere, quando gli è stata affidata la responsabilità di “Corriere anteprima”, freepress pomeridiana. Laureato all’università Cattolica a Milano in Lettere Classiche, ma con una tesi sul cinema, ha provato a scrivere un libro (guida turistica) e non c’è riuscito.

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