Pavia 27 Marzo 2024
In un angolo di Sicilia, tra Trapani e Palermo, nella notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968, la volontà cieca della natura si abbatté sulla Valle del Belice, la terra implose e interi centri abitati si sbriciolarono sotto le scosse implacabili del terremoto. Tra questi Gibellina, un borgo di montagna improvvisamente interrotto, il più duramente colpito dalla catastrofe che non ne lasciò nient’altro che macerie e desolazione.
Negli anni Ottanta Alberto Burri, artista e pittore italiano, fu chiamato assieme ad altri colleghi artisti e architetti per contribuire alla ricostruzione della nuova Gibellina – ricollocata a quasi venti chilometri del centro originario – ma l’artista non intendeva aggiungersi alle numerose maestranze internazionali e gli fu chiaro sin da subito che il luogo del proprio intervento sarebbe stato il vecchio centro abitato.
Con la straziante immagine dei relitti del paese negli occhi, Burri progettò una distesa di ottomila metri quadrati di cemento, un fazzoletto bianco adagiato sulla terra nera. Già negli anni Settanta aveva sperimentato la tecnica del cretto, dando forma a opere per i musei di Capodimonte e Los Angeles che ricordano le fessurazioni delle aride terre argillose. La scala con cui era chiamato a misurarsi in questa occasione superava di gran lunga l’estensione di tutte le opere precedentemente realizzate. Alla vista della desolazione lasciata dal terremoto, l’artista decise di compattare le macerie, armarle e sigillarle sotto una colata bianca realizzando una delle opere di land art più vaste al mondo, una sequenza di blocchi alti fino a 1 metro e mezzo solcati da vicoli simili a profonde ferite cicatrizzate, che ricalcano i percorsi del centro storico prima del terremoto.
I gibellinesi non hanno mai capito l’opera, intendendola come una copertura della propria terra d’origine, ma il paesaggio alieno e privo d’identità che ne risulta è un riferimento al terremoto che rende tutti uguali, che colpisce e distrugge senza distinzione. Così, il Cretto di Gibellina è un monumento alla memoria, un sudario che custodirà per sempre il ricordo dei morti, delle case e del tempo, passato e presente, perduto.
Iniziata nel 1981 e terminata nel 2015 dopo un’interruzione di ventisei anni, l’opera giace con tutta la propria potenza evocativa in un luogo che lascia spazio solo al silenzio.
Poco distante, diciotto chilometri a ovest, fu ricostruita la nuova Gibellina per ospitare gli sfollati sopravvissuti alla catastrofe. L’allora sindaco, Ludovico Corrao, coltivò il sogno della rinascita di una città ideale, dando l’opportunità ad architetti e artisti di grande fama di realizzare le proprie opere per contribuire alla rinascita di Gibellina. Ma quella della città ideale non è che una chimera, un’utopia che procede di pari passo con l’idea di fallimento, che si risolve esclusivamente a livello teorico e si rivela una mera illusione una volta portata alla realtà. Lo studio del nuovo impianto fu affidato a Marcello Fabbri, che si rifece ai modelli anglosassoni di new town, con spazi dilatati e abitazioni distanziate tra loro – nulla di più distante nella forma dal borgo originario e nelle necessità dettate dal territorio – ignorando che la densità urbana del vecchio impianto avrebbe determinato zone d’ombra dove poter trovare riparo dal sole nei mesi più caldi.
Il distacco tra le nuove abitazioni ha determinato una frammentazione dell’ombra e gli stessi luoghi progettati per le attività pubbliche si sono rivelati privi di ripari dai raggi del sole, rendendoli inadeguati alle relazioni e alle attività sociali. La nuova città fu progettata da audaci architetti – tra i quali Consagra, Purini, Pomodoro, Quaroni, Mendini, Accardi, Guttuso, Isgrò, Thermes, Boetti, Lupertz, Venezia – che realizzarono, diffusi su tutto il territorio urbano, oggetti architettonico-artistici sperimentalmente accattivanti, ma privi di qualsiasi carattere di appartenenza al luogo e in totale disarmonia gli uni dagli altri.
Alcuni esempi sono la chiesa postmoderna di Quaroni con l’enigmatica sfera in copertura, la Stella del Belice, il Grande Teatro e il Meeting di Pietro Consagra, o ancora il sistema delle piazze di Laura Thermes e Franco Purini, tutti oggetti che appaiono estranei, talmente autoreferenziali e decontestualizzati da non essere in alcuni casi addirittura completati, come se il progetto stesso non avesse avuto la forza di assumere una forma compiuta. Quello auspicato come centro cittadino assunse sin da subito l’aspetto di una periferia disabitata in stato di abbandono.
Il silenzio lega le due Gibelline: Gibellina Vecchia cristallizzata sotto il sudario di cemento, archeologia dell’archeologia, monumento alla memoria. Gibellina Nuova è il fantasma di ciò che avrebbe voluto essere, lo spettro di una città senza cuore, storia o identità, un luogo frammentato e inconcluso che non appartiene ai propri abitanti, nei cui ricordi è ancora viva la memoria dell’antico borgo.
Immagine di apertura: Alberto Burri, il Cretto, Gibellina (Trapani) (foto di Alessia Rampoldi)