Milano 21 Dicembre 2022
Nell’immaginario collettivo gli Etruschi sono presenti soprattutto per il mistero della loro lingua e per il “mondo dei morti” che evocano, fatto dei paesaggi funerari delle necropoli, come quelle di Tarquinia e Cerveteri, di tombe dipinte, di urne e di sarcofagi; mondo nei confronti del quale si prova un’ambigua attrazione.

Agli Etruschi si lega anche l’idea della libertà e del potere delle donne, su cui favoleggiavano i Greci, e sulla quale ha riflettuto lo storico e antropologo svizzero Johann Jakob Bachofen (1815-1887), autore di una ponderosa trattazione sul matriarcato che ha condizionato per molto tempo gli studi sul ruolo della donna in Etruria.
Negli ultimi decenni le ricerche e i risultati degli scavi archeologici hanno permesso di abbattere molti pregiudizi e luoghi comuni sulla civiltà etrusca e sul suo universo femminile. Il tema donne etrusche, dunque, ampio e complesso, è da qualche tempo di particolare interesse. Fra le varie tessere di un mosaico che va via via componendosi, un posto rilevante è occupato dalle pitture funerarie, con immagini di donne che raccontano molto del loro ruolo e delle loro condizione fin dall’età arcaica. Un osservatorio privilegiato è Tarquinia, per il gran numero di tombe dipinte, che coprono un lungo arco di tempo, e perché la cittadina laziale rappresenta una realtà storica e culturale emblematica della civiltà etrusca e dei suoi rapporti con i Greci e i Romani.

Le donne compaiono in scene di spettacoli, di musica, di danza, di sport, soprattutto in scene di banchetto. Tra la metà dell’VIII e del VII sec. a.C., l’aristocrazia etrusca acquisì il modello del simposio greco, rito elitario e maschile, dove le donne erano ammesse soprattutto per offrire piacere agli uomini. Nella rielaborazione etrusca di questo prestigioso rito collettivo, un tratto distintivo è proprio quello della legittimità per la donna di partecipare non da concubina ma da moglie, madre, e figlia (Tomba della Caccia e della Pesca).

Le immagini di donne etrusche a banchetto restituite da pitture, da sculture su urne e sarcofagi, come quelle sui due sarcofagi da Vulci conservati a Boston al Museum of Fine Arts, traducono l’idea di una donna protagonista nella relazione matrimoniale, di un legame sposa-sposo che si esprime attraverso una gestualità amorosa esplicita, affidata ad abbracci, a sguardi ricambiati e complici che comunicano intimità affettiva e tensione erotica (Tomba del Triclinio). La centralità della donna etrusca nella coppia e la manifestazione di amore fra sposi non appartenevano a gran parte del mondo greco e romano e, proprio perché fenomeni culturali e sociali diversi, si prestavano ad incomprensioni e fraintendimenti, e a giudizi non di rado malevoli, come quelli espressi dallo storico greco Teopompo di Chio (IV sec. a.C.).
Dalla fine del V sec. a.C. avvengono in Etruria significativi mutamenti storici e culturali che però non determinano, nella sostanza, cambiamenti nel ruolo e nel valore della donna nella famiglia, dove la moglie continua a non brillare di luce riflessa del marito, ma gode di grande considerazione e manifesta consapevolezza di sé (Tomba degli Scudi), agendo con lo stesso grado di dignità, responsabilità e legittimità dell’uomo.

Il riconoscimento del carisma familiare e sociale della donna da parte degli uomini va di pari passo con il riconoscimento della identità femminile documentata dalle iscrizioni che, dipinte o incise, si leggono nelle tombe, su urne, sarcofagi, su oggetti del mondo femminile come gli specchi. La donna etrusca, prima di essere “figlia di”, “moglie di”, è una persona che ha un nome, come la Velia dal celebre e intenso profilo della Tomba dell’Orco, un nome personale (praenomen) che fa esistere le donne al di là dell’appartenenza ad una stirpe. Il senso di individualità e indipendenza della donna, che traspare dal possesso del nome personale, si esprime anche nella possibilità di decidere con quale membro della famiglia mantenere un vincolo eterno, nella liceità di scegliere, pur coniugata, di essere sepolta non nella tomba del marito ma in quella della famiglia d’origine.

Per le Etrusche non esiste nulla di analogo, nemmeno dal punto di vista formale, alla tutela, ossia alla risposta giuridica romana data alle incapacità, debolezze, inferiorità mentali e di genere che si riconoscevano proprie del genere femminile. Per loro esisteva piuttosto la possibilità di legare a sé i figli con il proprio nome. Il matronimico, ben documentato dalle iscrizioni, rivela l’esercizio di un potere importante: il suo uso, scriveva la storica Marta Sordi in uno studio pionieristico sulla donna etrusca, «rivela […] che, in Etruria, bastava la madre a riconoscere giuridicamente il bambino e ad assicurargli, se non tutti, almeno i diritti civili».
Immagine di apertura: urna cineraria etrusca con policromia ben conservata, II-I Secolo a.C., Museo Archeologico di Perugia (foto di Giovanni Dall’Orto)