Firenze 23 Febbraio 2021
Il trionfo degli Etruschi: ben seimila oggetti in quaranta sale. Li espone il Museo Nazionale di Villa Giulia a Roma che ha sede nella villa di Papa Giulio III, costruita come residenza suburbana fra il 1551 e il 1553 (qui si tiene anche la votazione finale del Premio Strega). Lungo il percorso espositivo le sale accolgono reperti ritrovati nei grandi centri etruschi, quali Vulci, Cerveteri, Veio, ma sono rappresentati anche siti minori dell’Italia preromana. Dalla Banditaccia di Cerveteri – dichiarata patrimonio dell’Umanità e dell’Unesco nel 2004 per conservare una serie ininterrotta di tumuli e basamenti scavati nel tufo in un paesaggio archeologico tra i più suggestivi d’Italia – è giunto a noi il Sarcofago degli Sposi.
Si tratta di una grande opera in terracotta ad impasto rosso che caratterizza la tipica ceramica ceretana orientalizzante e che doveva custodire per l’eternità le spoglie mortali di una coppia. Rinvenuto nel 1881 in quattrocento frammenti nella Necropoli della Banditaccia, allora proprietà dei principi Ruspoli, venne ricomposta da Felice Bernabei, fondatore del Museo di Villa Giulia, che ne intuì l’importanza e fece di tutto per assicurarlo allo Stato, perché sapeva di un altro capolavoro affine già da molto tempo custodito al Museo del Louvre.
Il sarcofago in stile arcaico di scuola ionica è formato da una cassa a forma di letto da convito e da un coperchio con una coppia coniugale semidistesa. L’uomo con il busto nudo, solo in parte ricoperto da mantello, compie un gesto amoroso abbracciando le spalle di una donna riccamente abbigliata con cappello e calzari a imitazione dei modelli greco-orientali, ovvero con la parte anteriore a punta rivolta verso l’alto. Punto saliente dell’opera è il sorriso, così particolare, e gli occhi che contenevano una sostanza bianca per riprodurre il cristallino e l’iride. I volti sono allungati e la parte superiore del corpo contrasta con quella rigida e piatta delle gambe. Eloquenti sono le pose delle mani che sembrano sostenere coppe di vino o forse corone, ghirlande e fiori. L’opera, datata 520 a.C., era in origine completamente dipinta e dimostra che quest’area, più di altre, aveva assorbito l’influsso culturale dal mondo greco. Molti artigiani impiantarono qui le loro officine, come i ceramisti ionici fuggiti dalle loro patria nella Grecia dell’Est dopo la conquista da parte dei persiani.
Nei pressi di Cerveteri è stato trovato negli anni Cinquanta il Sarcofago dei Leoni, del VII secolo a.C., una grande arca che accoglieva una sepoltura a inumazione costituita da una cassa e da un coperchio a due falde. Sul lato frontale due felini contrapposti sono realizzati in bassorilievo mentre sulla sommità quattro felini accosciati e in tuttotondo sono rivolti a coppie verso il centro e con il muso di prospetto. L’opera dimostra la grande abilità degli artigiani di Cerveteri che per primi si cimentarono nella creazione di complesse sculture in terracotta avendo appreso l’arte dei maestri greci giunti in Etruria al seguito del nobile corinzio Demarato, padre di Tarquinio Prisco, quinto Re di Roma. I leoni non erano noti in Etruria a quell’epoca, ma il loro uso era diffuso nelle tombe allo scopo di proteggere il defunto ed allontanare il male. A volte si vedono sulle porte al pari delle pantere e delle sfingi.
Il frontone del Tempio A del Santuario di Pyrgi, il porto di Cerveteri, è un’altra opera significativa del museo e risale al 460-450 a.C. Decorava la fronte posteriore del tempio rivolta verso l’ingresso del santuario. Vi sono raffigurati due episodi tragici del mito I Sette contro Tebe. In alto al centro, Zeus affronta Capaneo, sullo sfondo il tebano Polifonte è trattenuto dal dio. Atena, a sinistra, assiste terrorizzata al combattimento tra Tideo e Melanippo e tiene stretta tra le mani l’ampolla con il farmaco dell’eternità ottenuta da Zeus. In primo piano in basso, per tutta la larghezza è la rappresentazione del “fiero pasto”: Tideo morente afferra alle spalle il tebano Melanippo, colpito anch’esso a morte e si accinge a divorargli il cervello. Questo episodio, conosciuto attraverso la lettura del poema epico Tebaide del poeta latino Stazio, sembra avere ispirato a Dante la pena del Conte Ugolino. La versione della saga, alla quale l’artista ignoto si è ispirato, è stata attribuita recentemente a Stesicoro di Himera, il poeta vissuto tra la Sicilia e la Magna Grecia in epoca arcaica e non, come in precedenza, a Eschilo e Euripide.
Chiaro è il messaggio: con l’aiuto degli dei, i tebani ingiustamente assaliti, trionfano sulla ferocia e sulla tracotanza degli avversari Argivi. Viene, altresì, esaltata la giustizia divina, da parte della città di Caere, alla quale il santuario apparteneva.
Proseguendo il percorso all’interno del Museo di Villa Giulia, si possono ammirare le statue acroteriali (cosiddette perché coronavano il vertice e gli angoli del frontone nei templi antichi) del Tempio di Portonaccio a Veio, realizzate dall’artigiano Vulca che raffigurano la Lotta tra Eracle e Apollo per conquistare la cerva di Cerinea. Completano il gruppo le figure di Hermes e di Latona che regge Apollo bambino.
Veio era costruita su una collina alle cui pendici scorreva il fiume Cremera, affluente del Tevere. La sua rivale Roma sorgeva sui sette colli e presso quel guado dell’Isola Tiberina tanto strategico per i traffici delle mercanzie. Tra le due città ci furono cinque secoli di rivalità fino alla conquista definitiva da parte dei romani nel 396 a.C. La statua del possente Eracle (Ercole), risalente al 500 a.C. era posta sul colmo del tetto e lo raffigura mentre sta contrastando Apollo per il possesso di una cerva dalle corna d’oro e dalle zampe d’argento che tiene ai suoi piedi. La resa anatomica dell’eroe è sorprendente per il modo in cui si riescono a intravedere tendini e fasce muscolari dentro masse asciutte. Nell’Apollo, scoperto nel 1916, l’artista indaga sulla descrizione ornamentale del panneggio, sulle trecce scomposte che cadono sulle spalle e sul motivo a volute del massiccio basamento.
Le statue erano poste ad una altezza di dodici metri assieme ad altre statue di divinità, ben dodici. Tale abbondanza ornamentale riflette l’attivissimo ambiente dei coroplasti, i modellatori di vasi e oggetti in terracotta (dal greco chóra, terra e plástes, modellatore) che si era sviluppato nella città di Veio. Vale la pena citare anche la Testa di Mercurio (Turms in etrusco) sul colmo del tetto accanto ad Apollo, assieme alla Antefissa (ornamento di varia forma che si collocava come fregio lungo la cornice del tetto) a testa di Menade e l’Antefissa a testa di Gorgone del 510 a.C. sempre per il Santuario di Portonaccio a Veio (vedi immagine di apertura).
Altre opere importanti esposte al museo sono: l’Antefissa a testa di Sileno da Pyrgi, 480-470 a.C. in terracotta policroma e l’Urna cineraria a capanna, detta dell’osteria, in lamina di bronzo incisa e sbalzata ritrovata a Vulci che testimonia la casa etrusca derivata dall’evoluzione della capanna di età arcaica.
Ricordiamo anche il massimo capolavoro della ceramica orientalizzante protocorinzia, la cosiddetta Olpe Chigi alta 26 centimetri realizzata a Corinto da un anonimo artista intorno al 640 a.C.
Immagine di apertura: Antefissa a testa di Gorgone, 510 a.C. Museo Nazionale di Villa Giulia, Roma (foto di Veronica Ferretti)