Milano 26 Luglio 2021
Il primo entra in scena, la strada, l’ultimo entra nella foto, la storia. Olimpiadi di Berlino, 1936. Il primo tedoforo fu un greco, si chiamava Konstantinos Kondylis, figlio di una guardia al Museo archeologico di Atene, studente universitario di Giurisprudenza, poi diplomatico. Era il 20 luglio 1936.
Il primo ultimo tedoforo fu scelto da Leni Riefensthal, la regista del film-documentario Olympia, perché – come spiegò – “avrebbe mostrato nel migliore modo possibile l’ideale dell’atleta tedesco”: alto e slanciato, magro e forte, biondo e bello, bianco e ariano. Si chiamava Fritz Schilgen, aveva quasi 30 anni, di Kronberg in Taunus vicino a Francoforte sul Meno, ingegnere elettrico, nell’atletica leggera (dai 400 ai 5mila metri) aveva conquistato ori e allori, ma a quei Giochi partecipò solo per accendere il fuoco nel braciere dello stadio, non per gareggiare in pista nelle competizioni del mezzofondo. Era il 1° agosto 1936. Sessant’anni dopo Schilgen avrebbe concesso il bis: per festeggiare il primo centenario delle Olimpiadi moderne, a quasi 90 anni, ripeté il suo atto cerimoniale nello stadio di Berlino, idealmente collegato a quello dei Giochi di Atlanta, negli Stati Uniti.
Tra Kondylis e Schilgen, altri 3073 tedofori per 3073 chilometri, attraversando Grecia, Bulgaria, Jugoslavia, Ungheria, Austria, Cecoslovacchia e Germania. Dopo la cerimonia di inaugurazione, la fiaccola ricominciò il suo pellegrinaggio: da Berlino a Kiel per le regate di vela (347 tedofori per 347 chilometri), da Berlino a Grunau per canoa e canottaggio (191 gruppi di corridori, ciascuno formato da un tedoforo e due sostenitori, per 37 chilometri). Tedoforo deriva dal greco: teda significa fiaccola, foro portatore, portatore di fiaccola. La fiaccola veniva accesa a Olimpia da una sacerdotessa del tempio di Era per donare il fuoco al braciere fino alla conclusione delle gare. Fuoco. Un simbolo, una forza, una divinità rubata dagli uomini agli dei. Il fuoco dell’ira, ma anche della passione. Il fuoco dell’eccitazione e dell’entusiasmo, ma anche del rito e della cerimonia. Il fuoco olimpico era purificatore, dunque sacro. Fuoco: il più tangibile – è stato scritto – di tutti i misteri visibili.
Il tedoforo più titolato fu Paavo Nurmi: atletica, nove ori e tre argenti olimpici nel fondo tra 1920 e 1928, ai Giochi di Helsinki 1952. Il tedoforo più commovente fu Muhammad Ali: oro olimpico nella boxe a Roma 1960 come Cassius Clay, ai Giochi di Atlanta 1996 salì i gradini e accese il cratere, tremante per il morbo di Parkinson. La prima donna tedofora fu Queta Basilio: velocista e ostacolista, ai Giochi di Città del Messico 1968.
Il primo disabile tedoforo fu Antonio Rebollo: arciere, ai Giochi di Barcellona 1992. Il primo tedoforo italiano fu Guido Caroli all’Olimpiade invernale di Cortina 1956. Pattinatore di velocità su ghiaccio, che già aveva partecipato ai Giochi – sempre quelli invernali – di Saint Moritz 1948 e di Oslo 1952, prima di accendere il braciere inciampò su un cavo e cadde, ma ebbe la lucidità, la prontezza, l’abilità di mantenere accesa la torcia, e se la cavò. Il primo tedoforo italiano ai Giochi estivi fu Giancarlo Peris a Roma 1960. Si era parlato di Luigi Beccali, olimpionico a Los Angeles 1932, primatista olimpico e mondiale nei 1500, poi si decise di puntare su un giovane dell’atletica leggera nella corsa, il campione provinciale degli studenteschi di corsa campestre a Roma. Peris aveva 18 anni, veniva da Civitavecchia, studiava al classico, prima superò la maturità, poi si dedicò alla fiaccola.
Peris ricorda l’attesa estenuante, il 25 agosto, finché gli dettero il via.
E a quel punto, come racconta nell’e-book Il fiaccolaro (66thand2nd), «non vidi nulla, non sentii nulla, non provai nulla. Come se fossi sotto vuoto, sotto spirito, sotto vetro. Avevo un solo pensiero: non sbagliare nulla. Un piede dopo l’altro, passi corti e sicuri, senza indugiare, senza scivolare, senza inciampare. Trecentocinquanta metri, dal sottopassaggio che va dallo Stadio dei Marmi fin dentro lo Stadio Olimpico, poi 92 gradini per salire dalla pista al braciere. Non vidi nulla, ma dal buio del sottopassaggio fui poi investito dalla luce di quel pomeriggio romano. Non sentii nulla, ma dal silenzio dello Stadio dei Marmi fui poi scosso dal boato dello Stadio Olimpico. Non provai nulla, ma la mia testa era come la torre di controllo del traffico aereo, di più, come il centro di controllo delle missioni spaziali della Nasa, mille luci per segnalare qualsiasi eventuale anomalia, acido lattico zero, ma adrenalina a tutta. I 350 metri, corricchiando, e i 92 gradini, saltellando. Finché mi ritrovai di fianco al tripode e, senza guardare il braciere, ma sempre con lo sguardo rivolto verso il centro della pista, avvicinai la fiaccola alla lamiera». Qui, il colpo di scena: il braciere si accese da solo. «Per poco, per niente, per una frazione di secondo. Ma la fiamma divampò prima che io calassi la torcia» ricorda. La fiamma, per sicurezza, era al minimo. Ma l’addetto, in ansia, aveva dato gas prima del tempo.
Immagine di apertura: la cerimonia di accensione della fiamma olimpica ad Olimpia, in Grecia. Dal 1960, qualche mese prima delle Olimpiadi, la fiamma viene accesa da undici sacerdotesse (ovviamente si tratta di attrici) (foto di StockSnap)