Pavia 27 Marzo 2023
Il Teatro Farnese, o Gran Teatro di Parma, è un preziosissimo gioiello dell’architettura tardo rinascimentale custodito nel cuore del complesso monumentale della Pilotta. Quasi distrutto del tutto dalle bombe “alleate” nel maggio 1944 – furono pochi gli elementi che si salvarono dalle macerie e dalle fiamme – nel 1956 fu oggetto di una grande opera di ricostruzione della quale fu incaricato Italo Pinazzi, imprenditore parmense. La fama e il significato profondo dell’opera originaria fecero sì che il teatro fu ricostituito dov’era e com’era, ad eccezione dei cromatismi pensati dal suo progettista. Agli occhi dell’osservatore contemporaneo oggi si presenta un maestoso allestimento costruito interamente in legno di larice, che, in versione monocromatica, restituisce una tra le più alte interpretazioni del restauro ricostruttivo moderno.

Il Gran Teatro nacque per volontà di Ranuccio I, IV duca di Parma e Piacenza (1593 -1622), figlio del grande condottiero Alessandro Farnese e della Infanta Maria d’Aviz di Portogallo. Ranuccio possedeva una cultura di livello internazionale: nonostante le grandi abilità dimostrate nelle arti militari, con il tempo preferì approfondire gli studi sul diritto e sull’arte della buona amministrazione. A lui, infatti, la città di Parma deve monumenti unici – come la Cittadella, la Pilotta e il Teatro Farnese – e una legislazione moderna che la rese un centro d’eccellenza, una capitale culturale al pari di Londra e Parigi.
Nel 1617 Ranuccio – in occasione della sosta a Parma, prevista nella primavera del 1618, del Granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici, diretto in pellegrinaggio verso Milano per onorare la tomba di San Carlo Borromeo – volle realizzare uno spazio teatrale all’altezza di un evento di importanza tale da offrire la possibilità di rinsaldare i legami tra la famiglia Farnese e la famiglia Medicea, mostrando a Cosimo e, implicitamente, a tutta l’aristocrazia italiana, la grandezza e lo splendore del proprio casato.
Il Duca incaricò del progetto Giovanni Battista Aleotti, detto l’Argenta, architetto che, prima di approdare a Parma, aveva lavorato per grandi committenti – Gonzaga, D’Este, Medici e alcuni Papi – come progettista di architetture civili e religiose, ma anche come Magister Aquae e come ingegnere militare, come la maggior parte degli architetti in area padana, agli inizi del XVII.

Ma, soprattutto, Aleotti aveva operato come regista meccanico per la realizzazione di scenografie e macchine teatrali, per le quali era molto apprezzato e considerato tra i migliori in circolazione. Il suo grande valore si doveva ad una grande precisione tecnica affiancata ad una solida e profonda cultura umanistica. La grandiosa opera lignea da lui ideata si sviluppa in un altrettanto maestoso spazio architettonico. La grande sala in cui fu collocato il teatro si trova al piano nobile del Palazzo della Pilotta ed era uno spazio originariamente destinato ad antiquarium, ma sfruttato soprattutto come sala d’armi e per lo svolgimento di tornei. Sviluppato su una lunghezza di 87 metri (di cui 40 occupati dal palcoscenico), e un’ampiezza di 32, il salone è concluso in altezza, a 22 metri, da gigantesche capriate alla palladiana che sostengono la copertura del Palazzo.

L’architetto emiliano interpretò magnificamente le volontà di Ranuccio. Con molta probabilità aveva studiato attentamente due grandi esempi, il Teatro Olimpico di Palladio a Vicenza e il Teatro di Sabbioneta dello Scamozzi. Seppur diversissimi tra loro, entrambi avevano offerto ad Aleotti la possibilità di capire i limiti della mancanza di uno spazio di separazione tra la cavea e il palcoscenico, che costringeva ad un’eccessiva distorsione dello spazio e, soprattutto, della prospettiva della scena fissa.
La configurazione inedita del teatro – una sorta di fusione tra un anfiteatro e un antico stadio romano – dà vita a un’architettura totalmente originale, nella quale non è solo la porzione del palco a offrire l’illusione di una dimensione altra, ma è l’intero spazio scenotecnico a dilatarsi. Sull’asse longitudinale, tale effetto è ottenuto dal posizionamento di una elemento di giunzione tra la cavea e l’arco di proscenio, dalla forte inclinazione del piano di calpestio e dal posizionamento di un grande arco a sesto ribassato tra palcoscenico e retropalco, entrambi elementi che accelerano la prospettiva verso il fondo.

Aleotti lavorò anche in altezza per creare l’illusione di uno spazio grande – da intendersi non solo dimensionalmente, ma soprattutto culturalmente. La gradinata lignea è sollevata su un balteo, un podio che concede anche agli spettatori seduti ai livelli più bassi di godere di una visuale elevata sulla cavea e sul palcoscenico. Questa soluzione offriva, inoltre, una distanza di sicurezza durante lo svolgimento degli spettacoli, in particolar modo delle naumachie. La sommità degli spalti è coronata da un doppio ordine di serliane (particolare tipo di trifore con l’apertura centrale ad arco e due laterali con colonne) che, correndo in aderenza alle pareti affrescate del salone, evocano il porticus di summa cavea dei teatri romani. La sovrapposizione delle arcate si dimostra una soluzione vincente ai fini dell’illusione prospettica, poiché restituisce all’osservatore la percezione di un maggiore sviluppo in altezza e, quindi, di maggior grandezza della cavea.
Il Gran Teatro si presenta a tutti gli effetti come elemento cardine nella transizione dal teatro a scena fissa al teatro barocco, caratterizzato da scene mobili e grandi effetti spettacolari, uno spazio grande nato per creare stupore e che ancora oggi, dopo la rinascita, continua a suscitare emozioni grandi, di meraviglia, di identità e appartenenza.
Immagine di apertura: Teatro Farnese di Parma, scorcio sul palcoscenico (foto di Stefano Tremolada)