Nairobi 27 giugno 2023

Storia prima felice, poi dolente, quindi dolentissima. Infine mitica. Grazie a quella che una volta si chiamava “celluloide” più che alla carta (stampata): è la storia di Karen Blixen, o di Isak Dinesen, al secolo baronessa Karen Christentze Dinesen von Blixen-Finecke. Se un viaggiatore d’autunno (equatoriale) in Kenya volesse risalire alle origini di questo mito, dopo essersi immerso nella banalità turistica, non avrebbe che da raggiungere il Karen Blixen Museum di Nairobi.

La casa dove visse di Karen Blixen, ora trasformata in museo, a venti chilometri da Nairobi, immersa in una grande area forestale

Si trova a 20 chilometri dal centro della città, immerso in un’area forestale che infonde pace e tranquillità. Qui si respira ancora l’aria di un mondo coloniale perduto; qui si scoprono le radici della “sua Africa”; qui ci si immerge nella sorgente dell’ispirazione letteraria, dei sogni esistenziali e della grandezza di una donna che ancor oggi affascina.
In una casa elegante, ma non lussuosa, tutta rivestita di legno scuro, con cucina, studio, sala da pranzo, due camere da letto. Una casa coloniale e colonica, perché immersa in un parco meraviglioso di 2400 ettari, centro dell’azienda agricola di 240 ettari che doveva produrre caffè e che fu culla e bara delle illusioni. È la casa che Karen aveva battezzato Mbogani, ovvero in mezzo ai boschi, dove trascorse il periodo più dolce e tormentato della sua esistenza.

Karen Blixen nel 1918 in Kenya

Come rievoca nel celebre incipit del suo libro testimonianza-testamento Out of Africa (La mia Africa, in italiano, editore Feltrinelli) scritto nel 1937, sei anni dopo il suo ritorno in Danimarca. «In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong. 150 chilometri più a nord su quegli altipiani passava l’equatore; eravamo a 1800 metri sul livello del mare. Di giorno si sentiva di essere in alto, vicino al sole, ma i mattini, come la sera, erano limpidi e calmi e di notte faceva freddo».

Gli attrezzi agricoli che furono utilizzati nella fattoria negli anni Venti esposti nel parco della casa

Dalla ex fattoria, dove arrugginiscono scheletriti quelli che furono gli attrezzi agricoli di settant’anni fa, gli altopiani di Ngong si scorgono nitidi, ma ora abbrutiti da quei giganteschi mulini a vento che si chiamano pale eoliche. Karen era stata felice fino ai dieci anni, fino a quando, il 28 marzo 1895, il padre, al quale era legatissima, si impiccò. Una personalità politica importante, vicino alla Chiesa e alla Monarchia danese, Wilhelm Dinesen, oltre che grande proprietario terriero.
Fu felice a 28 anni, quando nel 1913 partì da Napoli per l’Africa, dove pensava di soddisfare il suo spirito libero, inquieto, coraggioso. Nel 1917 Karen e il marito, il cugino svedese Bror Blixen-Finecke, acquistarono questa casa con il terreno circostante, costruita nel 1912 da un ingegnere svedese. Ma Bror la riempì di corna tanto che nel 1925 divorziò, lasciandole il titolo nobiliare e la sifilide. Un uomo colto, intelligente, brillante, a cui Karen restò legata nei ricordi. Nonostante vivessero come separati in casa, anzi in camera da letto. La scrittrice volle per sé una bianca stanza con letto matrimoniale, relegando il marito in una cameretta, sempre bianca, lettino singolo, con fuciliera in legno, pelle di leone (vera) come tappeto e una zampa di elefante (vera) come comodino.

La camera da letto di Karen

Fu dolentissima quando il 14 maggio 1931, il suo grande amante, celeberrimo cacciatore e viveur dell’Africa britannica, Denys Finch Hatton, si schiantò col suo biplano Gypsy Moth al confine con la Tanzania. E quando, nell’agosto dello stesso anno, liquidò l’azienda agricola, già andata in fumo una volta, oltretutto creata in un territorio non adatto al caffè. Vide così svanire tutti i suoi sogni sulle verdi colline d’Africa e dovette rientrare nella fredda natia casa-maniero di Rungstedlund (il bosco degli echi profondi), a nord di Copenhagen. Fu “funesta”, poi, la sua vita fino alla morte, tormentata dalla salute precaria legata alla sifilide, che la rese scheletrica e smunta, da due interventi chirurgici, da due aborti (non poté avere figli), da disturbi psicosomatici, dal suo carattere difficile. Tuttavia lenita dalla scrittura, dal mal d’Africa e dai viaggi, come quello negli Stati Uniti, nel 1959, dove volle conoscere Marilyn Monroe. Karen e Marilyn morirono nello stesso anno, il 1962. Karen aveva 77 anni, dei quali circa 18 trascorsi in Kenya. Anzi, meno, perché per 5 anni, in modo intermettente, rientrò in famiglia per curarsi.

Karen e Denys Finch-Hatton in una immagine del 1929

«Eppure, il periodo africano per Karen è stato il più importante della sua esistenza», ha scritto Linda Donelson, in Out of Isak Dinesenla storia non detta– biografia controcorrente. La Olsen (americana, morta un anno fa) per raccontare la vera Blixen dal punto di vista umano e non letterario, si era trasferita per lungo tempo proprio vicino a Mbogani. Anche se il museo ufficiale con i pezzi originali della tenuta keniana si trova in Danimarca, la scrittrice danese abita qui. Avrebbe, però, potuto mai pensare, la Blixen, che la storia della sua vita sarebbe diventata mitica soprattutto grazie al film hollywoodiano La mia Africa, vincitore di 7 Premi Oscar nel 1986? Il dubbio di ogni visitatore è: sono venuto qui per Maryl Streep e Robert Redford, o per una grande autrice, che per ben due volte fu sul punto di ottenere il premio Nobel?
Questa casa museo è piena di copie del “libro” nelle lingue più varie del pianeta, di immagini che rimandano al film e di oggetti fedelmente riprodotti: l’abbigliamento per la caccia grossa è un regalo della Universal Pictures, casa distributrice del film; il grammofono antico in un angolo dello studio, con un disco in vinile del concerto in D minore di Mozart, diretto da Edwin Fisher per la London Symphony Orchestra non è quello originale.

Lo studio con la scrivania dove Karen lavorava

Come non lo è la rudimentale macchina da scrivere, che Karen utilizzò poco, rispetto a quanto avrebbe fatto nella casa paterna. La sala da pranzo, con il camino e la tavola apparecchiata per accogliere gli ospiti, potrebbe evocare Il pranzo di Babette, se non fosse che un cartello mostra il menù del pranzo offerto nel 1928 a un ospite illustre: il principe di Galles, poi Re per soli 326 giorni prima di abdicare, Edoardo VIII.
Nella fattoria la baronessa scrisse molte lettere alla mamma e al fratello, «Ma la sua vocazione letteraria – ha commentato la studiosa Carolina Iacucci – si manifestò in modo compiuto e non amatoriale dopo il ritorno dal Kenya». Il film ha di sicuro avuto un ruolo fondamentale: in vita, Karen aveva venduto 100 mila copie. Dopo l’uscita della pellicola, che ebbe almeno 50 milioni di spettatori, le copie vendute salirono a 1 milione e mezzo. Il destino stesso della residenza ai piedi degli altipiani di Ngong, cambiò.
Dopo diversi passaggi di proprietà di privati, che lottizzarono l’area e dettero il via alla nascita di uno dei quartieri più esclusivi di Nairobi, nel 1964 finì in mano alla Danimarca, che la donò al Kenya, che ,a sua volta, ne fece un centro per gli studi alimentari!
Solo nel 1985 arrivò la svolta con le riprese del film, in parte girato in queste luminose stanze.

La sala da pranzo

Il successo planetario della pellicola spinse la Società dei Musei Nazionali del Kenya ad acquistare la magione e a trasformarla, nel 1986, in quello che è oggi: un must per visitatori, di gran lunga più frequentato e amato dello stesso Museo nazionale, situato nel cuore della Capitale, ricchissimo sul piano etnologico, però malandato e malcurato. Al termine del tour si ripropone l’interrogativo: la fiction ha oscurato e soppiantato la realtà?
Linda Donelson dubbi non ne ha avuti nel suo libro: «Il film ha rinverdito la fama di Karen. Lei però resta affascinante di suo, perché incarna la storia di una donna vissuta per essere ricordata dalla gente così come era: coraggiosa ed eccentrica. È stata una vera pioniera. Non ha esitato a venire in un continente a lei sconosciuto; ha avuto la forza di prendere in mano l’azienda quando il fratello, che con lei l’aveva messa in piedi, se ne tornò a casa; ha creato una scuola per i neri quando gli inglesi li ignoravano totalmente. Ed è stata una delle prime a descrivere gli africani non secondo gli stereotipi, ma come individui. Anche se è stata accusata di razzismo e di essere complice dell’intrusione coloniale in Africa. E poi la scrittura poetica, la storia romantica divenuta pubblica nel 1938 quando molte tragedie sconvolgevano il mondo e la gente era oppressa dagli effetti della grande depressione …La sua vita ha avuto così tante svolte da renderla interessante e avvincente». Da sempre.

Immagine di apertura: Robert Redford (Denys Finch Hatton) e Meryl Streep (Karen Blixen) in una scena del celeberrimo film del 1986 La Mia Africa, diretto dal Sydney Pollack, vincitore di sette premi Oscar

  • le foto della casa del servizio sono di Costantino Muscau
Nato e cresciuto in Sardegna, milanese di adozione, giornalista professionista dal 1973, alla sua carriera manca solo l’esperienza televisiva. Per il resto non si è risparmiato nulla: giornale del pomeriggio (La Notte), quotidiano popolare (l’Occhio), mensile di salute (Salve), settimanale familiare (Oggi), una radio privata per divertimento (Ambrosiana) e quindi 20 anni di “Corriere della Sera”, dove si è occupato di attualità nazionale e internazionale. Ha avuto anche un’esperienza di (mini) direttore per quasi due anni al Corriere, quando gli è stata affidata la responsabilità di “Corriere anteprima”, freepress pomeridiana. Laureato all’università Cattolica a Milano in Lettere Classiche, ma con una tesi sul cinema, ha provato a scrivere un libro (guida turistica) e non c’è riuscito.

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