Milano 23 Maggio 2020

Una guerra dimenticata, un Paese sconosciuto. Che altro può evocare la Corea del Nord? Un conflitto che, tra morti, feriti e dispersi, ha avuto quasi 3 milioni di vittime. Un Paese chiuso, poverissimo, in mano a un leader, Kim Jong un, giovane (36 anni) grassoccio, con un taglio di capelli da calciatore, imprevedibile al punto che ogni tanto si dissolve, viene dato per morto e poi risuscita. Come è successo nell’aprile scorso.
Il 25 giugno di settant’anni fa l’esercito nord coreano invadeva la parte meridionale del Paese. Era l’esplosione della tensione tra i due blocchi creatisi nel dopoguerra. Solo il 27 luglio 1953 un armistizio riporterà i due schieramenti al punto di partenza: il 38° parallelo. Ma intanto il mondo era stato sospinto a un passo da un conflitto nucleare. Quella pace mai firmata aveva lasciato la penisola protesa verso il Giappone, percorsa due volte da opposti eserciti, nella distruzione più completa, aveva portato al riarmo americano, favorito il maccartismo. E aveva posto le basi per una crisi irrisolta ancora oggi, come vediamo dall’inquietante balletto fra Kim e Trump.

La parte più celebre del grande monumento Mansudae a PyongYang: le statue in bronzo alte venti metri di Kim II Sung, leader supremo, e del figlio Kim Jong il, padre dell’attuale dittatore (foto Alex Berlin)

«Nonostante tutto ciò la guerra di Corea è per eccellenza la guerra dimenticata del XX secolo, sottovalutata in Occidente, rimossa dagli americani» sottolinea il professor Gastone Breccia, esperto di storia militare, nel suo libro Corea, la guerra dimenticata edito da Il Mulino. Tra le conseguenze di quello spaventoso confronto militare c’è stato il crescente isolamento dal mondo occidentale. «Già nel 1947 – ci ricordano gli storici francesi Bernard Droz e Anthony Rowley nella Storia del XX Secolo (Universale Sansoni) – una commissione delle Nazioni Unite si dimostrò inefficace a risolvere il problema coreano per l’impossibilità di visitare la Corea del Nord».

C’è chi il 29 giugno 2012 ha voluto sfidare questa impossibilità. Lasciò Bologna per Rimini Nord (come avrebbe ribattezzato PyongYang e dintorni) «con 23 chili di vestiti, un litro d’olio extravergine d’oliva, un salame artigianale, una bustina di bottarga, una bottiglietta di grappa e poche centinaia di euro infilati tra pantaloni e mutande, l’unico modo per far entrare valuta straniera nel Paese». Aveva 31 anni, un passato da fricchettona (anticonformista, studi universitari movimentati, attrice, attivista, case occupate, canne e bevute). Un presente incerto, «in 9 metri quadri a Bologna, senza sapere come arrivare a fine mese, vagamente fallita». E un futuro senza futuro.
Come è, come non è, Carla Vitantonio, molisana, «senza la minima motivazione sociopolitica o antropologica» partì «con un contratto per 9 mesi in Corea del Nord, che per me era un ricordo della guerra fredda, un rombo grigio sulla cartina geografica evocato da sporadiche notizie al Tg legate alla dittatura, alla mancanza di libertà, alla paura, alla fame». Ci resterà 4 anni e un mese: come insegnante di italiano, come responsabile della cooperazione e come capo missione per un’ONG.

La copertina del libro “PyongYang Blues” uscito per Add editore, di Carla Vitantonio

La spremuta dei suoi 49 mesi è un libro, Pyongyang blues (Add Editore). Uno sguardo su questo misterioso mondo visitato solo da qualche italiano veterocomunista, da turisti nippo-coreani e da cinesi. Dai suoi 1491 giorni sopra il 38° parallelo Carla Vitantonio distilla tanti dettagli. Lo straniero appena sbarcato viene privato del cellulare in cambio di un ferrovecchio collegato a una rete che permette di comunicare solo tra gli espatriati; lo straniero viene seguito sempre da un “coreano personale”; Internet non funziona, l’acqua scarseggia, il cibo, pure; la professoressa di italiano non può fare la pipì nel bagno del personale; nella stazione ferroviaria vengono proiettati film su un maxischermo mentre intorno giacciono gli invisibili, pezzenti che non dovrebbero esistere… E poi le cinque visite alla città proibita, la visione del più grande spettacolo di massa del mondo (i giochi di Arirang che ogni anno radunano fino a 100mila persone), la crisi nucleare del 2013, l’assillo dei check point, le domande senza risposte del perché la gente sparisca e poi magari ricompaia; le succose fragole della primavera, la candeggina fatta in casa, l’incontro ravvicinato, il 10 ottobre 2013, con il dittatore, Kim Jong un. «Una delle emozioni più forti della mia vita» racconta. Lampi nel buio descritti senza formalità e ornamenti di stile. Pochi squarci dentro un bunker.

L’arco di trionfo nel centro della Capitale. Il più grande del mondo, fu eretto per celebrare Kim II Sung e la resistenza coreana durante l’occupazione giapponese (foto di Tomoyuki Mizuta)

Ma è questo che volevamo sapere della Corea del Nord da chi per un anno è stata l’unica italiana in quelle latitudini? E poi ci aspettavamo qualcosa di diverso dalla “Nazione potente e prospera”? La vera realtà non si riesce a penetrare. Ammette la Vitantonio, espatriata con qualche privilegio (trova vino, pastis e canne senza difficoltà): «Niente, non ho capito niente di questo Paese». Eppure dopo 49 mesi se ne va con rimpianti.
Ma forse questo diario non voleva né poteva dare più di tanto. Le stonature del blues sono altre. Sono nelle note che «suonano» il privato, la vita autoreferenziale dei cooperanti, anche «quelli della Croce Rossa dai gonfissimi pacchetti salariali». Un’esistenza fatta di angoscia, compresa quella – continua – di essere espulsi dal Paese senza un perché. All’opposto di quanto succede in altri Paesi, dove a incombere è la preoccupazione del rapimento, come ben sa la volontaria Silvia Romano rilasciata in Somalia dopo 18 mesi di cattività.
Un’esistenza fatta di «sesso e mancanza strutturale del sesso»; una quotidianità segnata da incontri casuali, desiderio di affermazione, di solitudine e di compagnia. Un blues liberatorio per chi lo ha scritto. Per il lettore, però, gli amori, gli scoramenti, le nostalgie, gli addii fra espatriati si rivelano dolciastri, irritanti. Da liceali al termine di una gita.

Immagine di apertura: uno scatto sui grandi giochi di Arirang, lo spettacolo con folle oceaniche che si tiene ogni anno fra giugno e settembre. Arirang è la canzone popolare simbolo del regime (foto Pixabay)

Nato e cresciuto in Sardegna, milanese di adozione, giornalista professionista dal 1973, alla sua carriera manca solo l’esperienza televisiva. Per il resto non si è risparmiato nulla: giornale del pomeriggio (La Notte), quotidiano popolare (l’Occhio), mensile di salute (Salve), settimanale familiare (Oggi), una radio privata per divertimento (Ambrosiana) e quindi 20 anni di “Corriere della Sera”, dove si è occupato di attualità nazionale e internazionale. Ha avuto anche un’esperienza di (mini) direttore per quasi due anni al Corriere, quando gli è stata affidata la responsabilità di “Corriere anteprima”, freepress pomeridiana. Laureato all’università Cattolica a Milano in Lettere Classiche, ma con una tesi sul cinema, ha provato a scrivere un libro (guida turistica) e non c’è riuscito.

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