Firenze 28 Novembre 2022
Per molti anni il cervello è stato studiato come organo indipendente dalle influenze ambientali che sembravano marginali, limitate all’imitazione inconsapevole nei primi anni di vita dei modelli comportamentali dei genitori. Nel 1950, l’Organizzazione Mondiale della Sanità commissionò a John Bowlby, psicologo e psicoanalista londinese, uno studio sui bambini ricoverati in befotrofi, durante la Seconda Guerra Mondiale. I bambini, che avevano sofferto della privazione materna, già alle prime osservazioni evidenziavano un ritardo nello sviluppo intellettivo, sociale e emotivo.

Tra le ricerche sperimentali che hanno fatto seguito a questi rilievi dimostrando come l’ambiente modifica la struttura del cervello, sono da ricordare quelle di Marian Diamond dell’Università di Berkeley in California (1985). I topi allevati in una specie di parco giochi con oggetti colorati e ampi percorsi che permettevano loro di correre e interagire, rispetto a topi allevati in semplici gabbie, mostravano notevoli cambiamenti positivi nel cervello. Ovvero, un cervello più grande e più ricco di vasi sanguigni, neuroni più ricchi di ramificazioni (dendriti) quindi maggiori contatti con altri neuroni, maggiore scambio di informazioni.
La sintesi più importante di questi studi che hanno mandato in soffitta l’immagine del cervello in splendido isolamento è quella del “cervello sociale”.

Ne ha trattato Louis Cozolino, insegnante di Psicologia presso la Pepperdine University, a Malibù in California nei suoi libri pubblicati in Italia da Cortina, Il cervello sociale, Neuroscienze delle relazioni umane (2008) e Oltre il tempo (2019). In sostanza, Il cervello in costante contatto con l’ambiente da cui è stimolato e coinvolto, ne trae un grande vantaggio mediante un incremento della formazione di nuovi neuroni, delle connessioni tra loro e del flusso di sangue. Le ricerche hanno dimostrato un aumento della materia grigia nei lobi frontali, temporali e parietali correlato ad una creatività matura, apertura verso pensieri e modi divergenti di sentire e una maggiore empatia con gli altri e il mondo. Ma se questo è vero da giovani e negli anni della maturità, tanto più lo è nella Terza Età. Eppure, nelle società economicamente più avanzate, gli stereotipi negativi sull’invecchiamento sono a tutt’oggi molto potenti e radicati fino al punto da manifestarsi come vere e proprie forme di razzismo. Talvolta anche scienziati e ricercatori hanno finito con l’interiorizzare pregiudizi e discriminazioni, finendo con il cercare quello che inconsapevolmente pensavano di trovare. Per lungo tempo nell’anziano è stata raccontata una storia di declino e di perdita (fino a 100.000 neuroni al giorno dopo i quaranta anni!, si diceva). Pregiudizi superati dal un gran mole di studi che dimostrano come il cervello dell’anziano non perde cellule cerebrali, se adeguatamente stimolato ne crea di nuove. Ma vuole compagnia, ha bisogno degli altri. Perché comunicare è vivere. Stare in compagnia è un’attivazione cerebrale anche dei cosiddetti “neuroni specchio” che ci permettono di collegare automaticamente le nostre azioni a quelle degli altri e vengono ritenuti la base neurofisiologica dell’empatia.
La conferma dell’importanza dello stare assieme agli altri in tarda età, viene anche da studi che mettono in evidenza come il declino mentale sia più veloce nelle persone sole. Indubbiamente la solitudine ad una certa età, è un problema sia personale che sociale. Nel Regno Unito uno dei progetti finalizzati a mitigare l’isolamento è lo Shared Lives, programma di condivisione della casa tra pensionati soli e studenti universitari. In Giappone ci sono le case di cura intergenerazionali che uniscono gli anziani alla scuola materna. Le soluzioni organizzate alla solitudine nel corso dell’invecchiamento in Italia, al contrario, sono inesistenti.

Ma le nostre tradizioni, il nostro tessuto sociale fa sì che nascano forme di aggregazione importanti; basta pensare al successo del volontariato e delle università della Terza Età. D’altro canto è anche utile ricordare il lavoro di Donald Winnicott, figura autorevole della psicoanalisi britannica, che ha sottolineato l’importanza della capacità di stare da soli che, una volta acquisita, è uno dei più importanti segnali di maturità dello sviluppo emotivo. In apparente controtendenza dall’avere più volte sottolineato la necessità della compagnia per il cervello, per mantenerlo vivo e partecipe lungo tutto l’arco dell’esistenza, imparare a stare soli è un’esigenza altrettanto vitale per ognuno di noi. Fuori da un contesto di tipo psicoanalitico e quindi di una interpretazione psicodinamica, momenti di improvvisa solitudine per la perdita di qualsiasi legame affettivo fondamentale per la nostra esistenza non ci devono lasciare nel baratro della disperazione. Questo non avverrà se nel tempo ci siamo addestrati anche a “stare soli”. È un esercitarsi anche da giovani, al silenzio, alla riflessione, ad una continua presa di coscienza dei nostri obiettivi, del nostro operato, fino alla scoperta del significato che la vita ha per noi.
Immagine di apertura: foto di Kampus Production