Monza, 27 febbraio 2024
All’ospedale Niguarda di Milano questo gennaio l’équipe guidata dal dottor Claudio Russo ha impiantato un cuore artificiale totale. Ma non sono stati resi pubblici i dettagli e le ricerche dalle quali avere dati sul percorso clinico.
D’altro canto l’idea di un cuore totalmente artificiale che sostituisca quello malandato, saltando a piè pari la carenza di organi che costringe oggi a lunghe attese per il trapianto, è una specie di Santo Graal della cardiochirurgia moderna. Con l’aumento dell’aspettativa di vita, il numero di pazienti in attesa di trapianto è cresciuto, ma i cuori disponibili sono sempre pochi rispetto ai pazienti in lista. Non a caso la ricerca sta spingendo per l’impiego di “cuori umani fermi”, cioè andati in arresto, per lo più per una fibrillazione ventricolare, che in precedenza non erano considerati idonei al trapianto perché ritenuti lesionati (ne ha scritto su questa rivista Sabrina Sperotto sul numero luglio dell’anno scorso).
Comunque ancora oggi dare tempo di vita ai pazienti in attesa del trapianto è estremamente importante e per questo sono nate le pompe artificiali. All’interno di questo tipo di pompe, possiamo parlare di due grandi categorie: i VAD (Ventricular Assist Device – Dispositivi di Assistenza Ventricolare) che supportano l’attività di uno o di entrambi i ventricoli, destro e sinistro, lasciando quindi il cuore nel torace del paziente ed i TAH (Total Artificial Heart), il Cuore Artificiale Totale che va a sostituire l’intero cuore, togliendo quello nativo.
Gli esperimenti si sono susseguiti incessanti dagli anni Cinquanta. Nel 1957 Willen Johan Kolff e Tetsuzo Akutsu a Cleveland tennero in vita per 90 minuti un cane con il primo impianto di cuore artificiale totale. Nel 1966 Michael Ellis De Bakey a Houston con il primo impianto di un dispositivo di assistenza ventricolare per 10 giorni, permise ad una sua paziente di recuperare l’autonomia funzionale del cuore dopo un intervento a cuore aperto. Ma il primo vero successo arrivò nel 1969 quando Denton Cooley impiantò il cuore artificiale pneumatico di Domingo Liotta in un paziente per 64 ore, seguite dal trapianto.
In America nei primi anni Settanta iniziarono i finanziamenti massivi per queste tecnologie e gli sviluppi non si sono fatti attendere. Dapprima partiti con l’obiettivo del cuore artificiale totale, in verità gli sforzi si sono concentrati poi sui Dispositivi di Assistenza Ventricolare che proponevano soluzioni più efficaci sia sul piano terapeutico che economico. Così nel corso degli anni siamo arrivati alla terza generazione di assistenze ventricolari con dispositivi piccoli, che si usurano meno, non scaldano e consumano meno energia.
I Cuori Artificiali Totali sono costituiti da due camere collegate che sostituiscono sia la circolazione generale che quella polmonare. Hanno quattro valvole, come il cuore naturale ed il flusso ideale è pulsatile. Ricreare artificialmente il bilanciamento del carico di lavoro di entrambi i ventricoli, l’interazione con tutti gli organi e le esigenze emodinamiche e metaboliche richieste dal funzionamento dell’organismo, è uno dei problemi principali da risolvere per un uso a lungo termine. Questo richiede una mole di dati che non si riesce ancora a gestire. Oggi sono due i modelli ufficialmente approvati per uso clinico dalla Food and Drug Administration, l’ente regolatore federale americano per i farmaci e i dispositivi: il SynCardia americano e il Carmat francese come ponte al trapianto, ma ci sono altri modelli sperimentali in fase di valutazione anche come terapia di destinazione.
Certo è che considerare l’ultima tecnologia disponibile, senza ricordare che i tempi di validazione in medicina sono lunghi, non è l’opzione più prudente. La regola è valutare prima il bene del paziente, considerando la tecnologia più affidabile per il miglior percorso terapeutico. Come cardiochirurgo tante volte mi è capitato di scegliere una tecnologia magari “più scomoda”, ad esempio il Novacor un ventricolo artificiale voluminoso completamente impiantabile, usato negli anni Novanta, ma molto affidabile che si è dimostrato sufficiente a mantenere in vita il paziente fino a 4 anni quando tardava il trapianto.
L’Incor è un device più contenuto di seconda generazione che drena molto bene il sangue, senza complicanze tromboemboliche e garantisce al paziente un tenore di vita normale. Ad oggi l’impiego dei dispositivi di assistenza ventricolare – oltre alla funzione in attesa del trapianto a breve termine – ha dimostrato che è possibile, avendo ancora il cuore nativo in sede, un recupero funzionale, anatomico, emodinamico, ed anche elettrofisiologico così da restituire in alcuni casi la funzionalità al cuore nativo che, dopo “essere stato messo a riposo”, riprende a funzionare. Nei casi più gravi di insufficienza, i dispositivi possono essere una soluzione definitiva per tutti i pazienti non candidabili al trapianto. Come uso di ponte al trapianto, la differenza principale rispetto al cuore artificiale riguarda il funzionamento del ventricolo destro. Dalla mia esperienza ho visto però che spesso, togliendo il carico di lavoro al ventricolo sinistro con un dispositivo di assistenza, anche quello destro migliora la sua attività. Come dimostrato dalla cardiochirurgia neonatale, quest’ultimo non è essenziale per la crescita e la sopravvivenza.
Immagine di apertura: foto di ThankYou-Fantasy-Pictures
- Ha collaborato Sabrina Sperotto