Milano 27 Novembre 2023
Storie di uomini, di animali, di alberi si intrecciano nell’ultimo libro di Paolo Cognetti, scrittore milanese che ha vinto il Premio Strega nel 2016 con Le otto montagne, romanzo tornato alla ribalta un anno fa grazie al film realizzato dai belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch; un’opera di successo premiata a Cannes e con 4 David di Donatello.
Cognetti nel suo recentissimo lavoro Giù nella Valle (Einaudi), scende dalle montagne valdostane e ci trasporta nel cuore pulsante della piemontese Valsesia, sull’altro lato del Monte Rosa; valle affascinante e amara, rifugio di minoranze (Walser), ancora selvaggia per lunghi tratti dell’omonimo fiume, ma troppo antropizzata, inquinata nelle sue acque e climaticamente infelice perché vittima di piovosità eccessiva e alluvioni. «Guardare in giù dai ghiacciai del Rosa e vedere regolarmente le nuvole da una parte e il sole dall’altra» si dice nel libro.
È il Nebraska dell’autore, alludendo all’album di canzoni composte dal cantante-poeta Bruce Springsteen, dalle cui storie di assassini, ergastolani e alcolizzati Cognetti ha tratto spunto. Romanzo breve di cinque capitoli che termina con una poesia celtica sulle piante e con un saggio finale dedicato soprattutto ai modelli ispiratori dell’autore (letteratura minimalista americana, in particolare Raymond Carver e Springsteen).
Amore e morte preannuncia il primo capitolo che, come dice lo scrittore in un’intervista recente alla Lettura, l’inserto culturale del Corriere della Sera «mi ha dato la misura, lo stile e il linguaggio». Un cane femmina bianca, giovane e ingenua, s’innamora e segue un cane-lupo violento e famelico che ha portato via in un baleno la sua verginità e che, lungo l’argine del fiume, azzanna alla gola altri dieci cani, scatenando la caccia della guardia forestale.
Si snoda negli altri quattro capitoli la storia di due fratelli, Luigi e Alfredo, rappresentati da due alberi, un larice e un abete, messi a dimora dal padre davanti alla propria casa, al momento della loro nascita, rispettivamente 37 e 35 anni fa. Luigi, il più anziano, è una guardia forestale dal passato poco limpido, fragile, profondamente radicato nella valle. Alfredo, il più giovane, è l’abete resistente, irrequieto, violento, ex carcerato, che ha scelto la fuga nelle terre estreme del Canada alla ricerca di una pace irraggiungibile. Dopo sette anni, i due si ritrovano; il padre è morto suicida per non sopportare l’umiliazione di una grave malattia e ora c’è da sistemare l’eredità della vecchia casa paterna a Fontana Fredda, località di poche anime, situata a 1800 metri di altitudine. L’incontro, impacciato e nervoso, avviene proprio nel luogo della loro triste infanzia, segnata dalla morte prematura della madre e dalla misantropia del padre. E l’ambiente domestico che li accomuna diventa causa di divisione. Luigi e sua moglie Elisabetta vorrebbero andare a vivere lì ora che aspettano un bambino, ma la richiesta alimenta diffidenza e malintesi in Alfredo.
Elisabetta è una milanese che da villeggiante si è trasformata in abitante stanziale della valle. Ha abbandonato studi universitari e clamore cittadino per un ritorno alla natura e ha sposato quel ragazzo conosciuto sul masso della Sesia, da cui d’estate si tuffava, affascinata dalla sua vita reale. Intorno a loro ruotano gli altri personaggi della valle, ruvidi, maligni, ma generosi e accoglienti, solo appena tratteggiati attraverso battute, espressioni, azioni. Porto comune è il bar, dove si beve fino a scoppiare per poi tornare a casa ubriachi e, comunque, essere presenti al lavoro la mattina dopo. L’alcol come sfogo alla durezza della vita nel fondovalle.
Il romanzo è un quadro realistico e crudo della vita della Valsesia, con le sue bellezze naturali e la fatica dell’esistenza quotidiana. Dà voce ai perdenti, a coloro che devono lottare per la sopravvivenza economica e psicologica, di cui i due fratelli sono l’emblema. E pur senza lunghe introspezioni, il lettore entra nel vivo dell’animo sofferente di Luigi e Alfredo, chiamati a fare i conti col passato.
Lo scrittore alterna volutamente la prima alla terza persona, adeguandosi al punto di vista dei personaggi, creando una polifonia di pareri. Compatta, asciutta, priva di fronzoli è la narrazione di Cognetti, eppure coinvolgente; arriva dritta al cuore e pone sul tavolo svariati problemi umani e sociali, che meritano riflessione e approfondimento: relazioni familiari, fragilità personali mai risolte, solitudine, alcolismo. Come i fianchi del monte Rosa, anche gli uomini della Valsesia hanno il loro lato al sole e quello all’ombra e quest’ultimo spesso coincide con l’alcol. Dice Betta di suo marito Luigi: «Era come se bere lo riconnettesse a quel lato selvatico, boscoso, una parte invernale di sé…». E poi c’è l’avidità dell’uomo che distrugge la natura, che inquina i fiumi («Lì, all’uscita dell’autostrada cercavano i rifiuti tossici che avvelenavano il fiume»), che abbatte alberi per costruire impianti sciistici …. Tanto da far pensare ad Alfredo: «A questo mondo non gliene frega niente di noi».
Lo scrittore coniuga la passione per la montagna, il mondo che gli consente una vera presa sulla realtà, con quella per la letteratura americana, il cui studio gli ha permesso la piena comprensione di Nebraska. Attraverso la figura di Elisabetta, poi, rende omaggio anche a Cechov e a Karen Blixen, che, nonostante i problemi fisici ed economici, «cantava l’amore tra una nobildonna ed un essere indomito, selvaggio, che lei chiamava Africa, ma che poteva benissimo chiamarsi Valsesia».
Immagine di apertura: i boschi sopra l’abitato di Alagna, in Valsesia (foto di Hairless Heart)